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Sorelle Clarisse: Il ricco e il povero

DIOCESI – Lectio delle Sorelle Clarisse del Monastero Santa Speranza di San Benedetto del Tronto.

Il profeta Amos, nella prima lettura, mette in guardia due categorie di persone. Dice così: «Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri sulla montagna di Samaria!».

A chi si riferisce Amos? Alla classe aristocratica, alla classe dirigente che poggia la propria vita su un’unica, spensierata ed illusoria sicurezza che è quella frutto del benessere materiale e fiduciosa solo nei mezzi umani.

Nella descrizione che segue, infatti, il profeta mette in evidenza l’eccesso del loro agire e del loro modo di fare: letti d’avorio su cui sdraiarsi per mangiare, larghe coppe con le quali bere vino, gli unguenti più raffinati e pregiati per ungere il corpo. Il quadro è quello di una vita sontuosa, egoista e sconsiderata, che basta a sé stessa perché, come prosegue Amos, questo comportamento ha portato questi uomini a non occuparsi «della rovina di Giuseppe», cioè a non occuparsi del popolo.

Infatti, in cosa consiste il peccato degli aristocratici di Samaria? Nell’usare unguenti raffinati, stoviglie pregiate, letti preziosi?

No! Il loro peccato, quello che li porterà «in esilio in testa ai deportati» e li condannerà, è il non essersi preoccupati della rovina del popolo.

Lo stesso eccesso è descritto da Gesù nel Vangelo riguardo il comportamento di «un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti».

Anche in queto caso l’uomo, chiuso in se stesso, in ascolto solo di se stesso e dei suoi bisogni, non guarda e non si prende cura di «un povero di nome Lazzaro [che] stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe».

Facciamo attenzione ad un dettaglio che, però, tale non è: il ricco è senza nome, perché spesso il denaro diventa come una seconda pelle, come l’identità stessa della persona, domina la sua coscienza, detta le leggi, ispira i pensieri. Il povero, invece, ha un nome, si chiama Lazzaro, cioè “Dio aiuta”.

«Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto». Il testo ci dice che stava «negli inferi».

Ci rifacciamo la stessa domanda di prima: qual è il peccato del ricco? La cultura del piacere? L’amore per il lusso? Gli eccessi della gola? No, il suo peccato è essersi fatto chiudere occhi e cuore dal suo benessere. Il suo peccato è non aver dato: non un gesto, non una briciola, non una parola. Tutta una vita nell’indifferenza e nella mancanza di carità.

Il ricco non fa male al povero, solo non fa nulla per lui.

Lazzaro che giace davanti alla porta della sua casa è un richiamo vivente al ricco per ricordarsi di Dio, ma il ricco non accoglie tale richiamo. È condannato, quindi, non per la sua ricchezza ma per non essere stato capace di sentire compassione per Lazzaro e soccorrerlo.

Un cuore, quello del ricco come quello degli aristocratici di Samaria, che si accontenta di stagnare, senza valicare l’abisso per andare incontro al fratello. Quell’abisso che il ricco stesso si è scavato e che rimane tra lui e Lazzaro anche dopo la morte, quando Lazzaro è «portato dagli angeli accanto ad Abramo» e il ricco è negli inferi.

«Tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza». Sono le parole di San Paolo al giovane vescovo Timoteo, le leggiamo nella seconda lettura, parole rivolte a tutti noi. È l’invito del Signore affinché ciascuno possa scoprire la ricchezza racchiusa nel proprio essere esistenzialmente poveri, scoperta che, accolta, diventa spazio in cui il Signore stesso può riversarsi, vuoto che può lasciar trasparire la sua immagine.

Perché con Lui e in Lui, come canta il salmista, possiamo rendere giustizia agli oppressi, dare il pane agli affamati, liberare i prigionieri, ridonare la vista ai ciechi, rialzare chi è caduto, proteggere i forestieri, sostenere l’orfano e la vedova… «di generazione in generazione».

Redazione: