OFFIDA – Nel centenario della nascita di don Oreste Benzi, abbiamo incontrato Claudia Zappasodi, referente del Servizio Accoglienza Adulti e Minori del Centro Italia della Comunità “Papa Giovanni XXIII”, l’associazione di Diritto Pontificio fondata proprio dal prete riminese nel 1968 e oggi presente in 42 Paesi del mondo per portare avanti il grande progetto di solidarietà da lui iniziato: “essere famiglia con chi non ce l’ha“.
Come ha conosciuto don Oreste Benzi?
Io e mio marito ci siamo sposati molto giovani: io avevo 23 anni e lui 25. Durante il corso di preparazione al matrimonio, i coniugi che ci hanno guidato, Anna e Vittorio Bellegia, ci hanno parlato della loro esperienza di affidamento. Noi siamo rimasti molto colpiti dal loro racconto colmo di gioia e di aneddoti spiritosi di vita quotidiana, quindi, subito dopo il nostro matrimonio, ci siamo rivolti all’associazione “Famiglia sociale”, il cui presidente all’epoca era Fernando Palestini, e ci siamo iscritti, cominciando così a conoscere le altre famiglie affidatarie. Essendo giovanissimi, all’inizio abbiamo fatto solo piccole esperienze di affido. Un giorno, padre Silvano Nicoli, che allora era parroco della comunità San Giuseppe, durante la Messa chiese aiuto ai fedeli presenti per un affido: c’era infatti una famiglia che ne aveva urgente bisogno. Io e mio marito desideravamo avere dei figli, ma ancora non erano arrivati, quindi pensammo di poter essere d’aiuto e andammo in sagrestia per proporci come famiglia affidataria. Purtroppo, con nostra grande sorpresa, padre Silvano ci disse di no. Ci rimanemmo un po’ male, ma ci spiegò che, per noi, aveva in mente un altro progetto e che aveva pensato di mandarci da un certo don Oreste a Rimini per saperne di più. Ci diede un suo biglietto da visita, io lo misi nella tasca della giacca e ce ne tornammo a casa un po’ dispiaciuti. Non sapevano di che cosa si trattasse, ma l’idea di andare a Rimini non ci piacque molto, quindi la proposta del nostro parroco rimase nel dimenticatoio. Nel frattempo avevamo preso in affido una bambina e nella sua classe, a scuola, c’era un’altra bambina straniera che aveva bisogno di essere seguita per una settimana. Noi ci rendemmo disponibili e la accogliemmo in casa nostra, ma questo affido fu molto, molto complicato. La bambina alla fine tornò a casa sua e io e mio marito restammo molto male: eravamo molto tristi e senza fiducia. Appena la bimba andò via, comincia a sistemare la casa e, mettendo a posto la mia giacca, dalla tasca cadde un biglietto: era quello di don Oreste. Ci guardammo e capimmo subito di aver avuto lo stesso pensiero: era giunto il tempo di andare a Rimini e capire che cosa il Signore volesse da noi.
Quando e come avete incontrato don Oreste per la prima volta?
A Rimini era in corso un convegno sull’affidamento familiare, organizzato dall’associazione “Papa Giovanni XXIII”. Dopo averlo ascoltato come relatore, andammo nella hall dell’albergo che ospitava quel simposio su carità e solidarietà, don Oreste ci raggiunse, si mise a sedere vicino a noi e ci presentammo per bene. Prima di andare a pranzo, dopo aver parlato con noi un’oretta, ci propose subito l’affido di un bambino di sei anni con la sindrome feto-alcolica, una malattia caratterizzata da tanti problemi fisici, comportamentali e neurologici che si verificano in un neonato che è stato esposto all’alcol prima della nascita. Noi ci spaventammo un po’. Questi disturbi infatti, possono avere implicazioni per tutta la vita, con costi personali e familiari molto elevati. La mamma e lo zio di questo bambino, inoltre, avevano la stessa sindrome, quindi con molta probabilità il bambino non sarebbe mai più tornato a casa dalla sua famiglia naturale, bensì sarebbe rimasto da noi per sempre e ad un certo punto avremmo dovuto trasformare l’affido in un’adozione. Pensammo di non essere in grado di fare tutto da soli e ci chiedemmo che cosa ne sarebbe stato di questo bambino dopo la nostra morte. Ci colpì molto la risposta che ci diede una coppia di coniugi dell’associazione “Papa Giovanni XXIII”: “I figli che abbiamo sono i figli della comunità. Non sarete mai soli“. Così tornammo a casa, parlammo con i nostri familiari e decidemmo di accogliere quel bambino: Silvio, che oggi ha 37 anni, è diventato il nostro primo figlio.
Nel frattempo avevate mai pensato che avreste potuto avere anche dei figli naturali? In quel caso, cosa avreste fatto?
Non abbiamo mai pensato a questo. Noi eravamo sposati già da alcuni anni, ma eravamo anche giovani, quindi eravamo nella fase in cui provavamo ad avere figli senza farci troppe domande. Quando abbiamo visto Silvio, abbiamo solo pensato che si trattava di un bambino che aveva bisogno di una madre e di un padre. Altri figli, quando fossero arrivati, si sarebbero uniti a lui. Solo dopo alcuni anni abbiamo scoperto di non poterne avere e a quel punto abbiamo iniziato a vedere nella nostra vita il progetto che il Signore aveva in serbo per noi.
Come è proseguito il legame con don Oreste Benzi e la Comunità “Papa Giovanni XXIII”?
Dopo l’arrivo di Silvio, abbiamo iniziato a frequentare la comunità, facendo un percorso di conoscenza che si chiama “periodo di verifica vocazionale” durante il quale si comprende se l’affido sia la vocazione giusta per la propria famiglia, se sia questo il modo in cui si sceglie di servire il Signore, cioè attraverso la condivisione diretta. Io all’epoca ero impiegata alle Poste, mentre mio marito faceva l’idraulico, ma, nonostante gli impegni di lavoro, ogni Sabato pomeriggio andavamo a Rimini a seguire la Messa presieduta da don Oreste. Sentivamo le sue omelie e rimanevamo incantati! Poi prendevamo appuntamento con lui per farci venire a trovare. Don Oreste trovava il tempo per tutti! Un po’ alla volta si è instaurato tra noi un legame molto intenso. Noi gli scrivevamo i nostri problemi e soprattutto i nostri dubbi. Saremo capaci? Riusciremo a portare avanti il nostro progetto di coppia, aperta alla vita e all’accoglienza?: ci chiedevamo e chiedevamo anche a lui. Ricordo che in una lettera don Oreste ci ha risposto: “Io so nel mio cuore che avrete una grande famiglia e che aprirete una casa famiglia, perché il vostro cuore è aperto ai più fragili”. Noi siamo stati tanto contenti di ricevere quelle sue parole e ci siamo sentiti molto sostenuti, ma mai avremmo pensato che le cose si sarebbero davvero realizzate in quel modo.
Quando e come avete pensato di allargare la famiglia?
Dopo la prima bella esperienza, volevamo accogliere un altro bambino, ma temevamo che Silvio, essendo figlio unico, potesse in qualche modo risentirne. Allora chiedemmo direttamente a lui se volesse un fratellino o una sorellina e lui ci rispose: “Se si chiama Marco, sì!”. Io e mio marito sorridemmo ed interpretammo come un sì quella sua frase. Qualche giorno dopo, ci chiamarono dalla Comunità “Papa Giovanni XXIII” per un bambino di sei mesi che aveva gravi problemi di salute e che, secondo le previsioni dei dottori, non sarebbe arrivato ad un anno di vita. Stavano solo cercando una famiglia, per non farlo morire in una corsia di ospedale, bensì tra le braccia di due genitori. Io, in quel momento, ebbi paura delle morte e cercai di tirarmi indietro in maniera elegante. Dissi che eravamo già impegnati con Silvio e che non era il momento giusto. Poi aggiunsi: “Mi dica come si chiama, così pregheremo per lui”. L’assistente sociale, con cui ero al telefono, mi rispose: “Marco”. Mi prese un colpo! Inutile raccontare come sia andata a finire! Marco è diventato il nostro secondo figlio e oggi ha 27 anni. Ha subito 25 interventi in questi quasi tre decenni di vita, ma è ancora qui con noi. Il Signore sa davvero come prenderci!
Cos’è Casa Manuela e come è nata?
Dopo l’arrivo di Silvio e Marco, io e mio marito avevamo proprio il desiderio di diventare casa famiglia. Avevamo scoperto di non poter avere figli naturali e avevamo cominciato a rileggere la nostra storia alla luce della fede: ci eravamo resi conto che alcuni eventi non erano capitati per caso e che forse il Signore voleva quello che don Oreste aveva profetizzato. In quel periodo si concretizzò proprio la possibilità di aprire una casa famiglia con la Comunità “Papa Giovanni XXIII” e noi demmo subito la disponibilità. Purtroppo, però, venne scelta un’altra famiglia. Rimanemmo molto male. Il fatto di non essere stati scelti ci sembrò un segno del Signore, ma tra le regole che avevamo sottoscritto e condiviso con la comunità c’era anche l’obbedienza, quindi non protestammo e andammo avanti. Qualche settimana dopo andammo in parrocchia per fare una testimonianza ai giovani che si stavano preparando al Matrimonio. Sinceramente notammo che pochi erano attenti e ci sembrò che le nostre parole fossero cadute nel vuoto. Ma due giorni dopo, tre coppie del corso ci vennero a trovare: volevano conoscere la nostra famiglia. In particolare una giovane ragazza, che si sarebbe dovuta sposare pochi mesi dopo, era rimasta colpita dalla storia di Marco e voleva assolutamente conoscerlo. Fu una serata molto speciale, ricca di calore. La sera, quando tornò a casa, quella ragazza scrisse a mano, su un foglio di carta, alcune sue volontà; poi piegò il foglio, lo mise tra le pagine della sua agenda-diario e lo ripose nell’armadio, sotto ad alcuni vestiti. Dopo neanche un mese, la giovane ebbe un incidente frontale sulla sopraelevata che da San Benedetto del Tronto conduce ad Ascoli Piceno. Morì all’istante. Il giorno dopo il funerale, i familiari, sistemando l’armadio della ragazza, trovarono il suo testamento olografo: “Io, Manuela, in pieno possesso delle mie facoltà mentali, ringrazio Dio per avermi fatto conoscere Claudia e Gioacchino e i frutti del loro matrimonio cristiano. Se dovessi venire a mancare, pregate per la mia anima, seppellitemi sotto terra e donate i miei risparmi metà al Santa Gemma – dove la giovane faceva la volontaria – e metà alla famiglia di Claudia e Gioacchino, per le necessità dei loro figli”. I familiari portarono la lettera al vescovo di allora, mons. Gervasio Gestori. Noi ovviamente non sapevamo ancora nulla, ma in quello stesso giorno, in quella stessa ora, io ero andata dal vescovo per chiedere la disponibilità di una struttura, così da poter aprire la nostra casa famiglia. Ricordo che il vescovo Gervasio mi venne incontro a braccia aperte e mi disse: “Carissima, è un segno che tu sia qui!“. Incredibile! Io non sapevo nulla, neanche che Manuela fosse morta. Il vescovo Gestori comunque ci trovò una casa a Grottammare e con quel piccolo gruzzoletto che la ragazza ci aveva lasciato aprimmo la nostra casa famiglia che non poteva che chiamarsi “Casa Manuela”. Da allora sono trascorsi molti anni, ma mi pare come se fosse ieri! Ancora oggi, in più di un’occasione durante l’anno, ricordiamo Manuela con la preghiera e con eventi che portano il suo nome: senza la sua fede ed il suo grande amore per gli altri, non avremmo mai fatto questa meravigliosa esperienza di famiglia allargata. L’ultima iniziativa dedicata alla nostra Manuela c’è stata esattamente una settimana fa, Domenica 7 Settembre. Il Circolo Nautico Sambenedettese, di cui la giovane faceva parte come velista, ha organizzato la ventottesima edizione della Straregata Sociale, “Trofeo Manuela Sgattoni”. Nell’occasione il presidente Igor Baiocchi ci ha invitati per una testimonianza, che – devo dire – abbiamo fatto molto volentieri, perché è stata un’opportunità per ricordare il grande cuore di Manuela.
Come è proseguito il legame con don Oreste Benzi?
Don Oreste ci è stato sempre vicino e lo ha fatto ogni volta che abbiamo cambiato casa. Purtroppo per noi non è stato sempre facile trovare un’abitazione adeguata alle nostre esigenze: abbiamo dovuto combattere con il terremoto, con i costi, con circostanze avverse e con la burocrazia. Eppure don Oreste ci è stato sempre vicino: era uno di casa, uno di famiglia. Ogni volta che veniva a trovarci, ci incoraggiava e ci diceva parole di conforto che ci davano la carica, quasi fosse un concentrato di energia. Io e mio marito siamo stati fortunati ad averlo incontrato in una fase della sua vita particolarmente feconda. A parte la fede incrollabile in Dio, che lo ha sempre accompagnato, dopo i sessant’anni, don Oreste è cambiato molto. Lui stesso diceva: “In un primo periodo ho fatto le cose per Dio, dai 60 anni in poi ho fatto le cose con Dio”. Era cambiato il suo sacerdozio e anche il modo di vivere in comunità. Noi lo abbiamo conosciuto proprio in quegli anni, in quel periodo d’oro in cui, ai doni della perseveranza e della carità, si è aggiunto il dono della profezia. Quante cose ha predetto don Oreste! Persino la sua morte in qualche modo! Una sua abitudine, infatti, era quella di scrivere i commenti alle letture del giorno. Nel 2007, l’anno in cui è morto, li aveva scritti con largo anticipo. Chiaramente don Oreste non sapeva in quale giorno sarebbe morto, eppure a commento di quel giorno aveva scritto: “Nel momento in cui chiuderò gli occhi a questa terra, la gente che mi sarà vicino dirà: «È morto!». In realtà è una bugia: sono morto per chi mi vede, per chi sta lì. Le mie mani saranno fredde, il mio occhio non potrà più vedere, ma in realtà la morte non esiste, perché, appena chiudo gli occhi a questa terra, mi apro all’infinito di Dio”. Io la reputo una profezia. Quando è morto, noi lo abbiamo saputo dalle chiamate degli amici. Io e Gioacchino ovviamente siamo andati a trovare il feretro e abbiamo partecipato al funerale. Quello che ci ha colpito e che ancora ricordiamo nitidamente è che, dall’uscita del casello autostradale fino alla chiesa in cui è stato celebrato il funerale, c’era una folla interminabile di pullmini dell’associazione. Mentre proseguivamo a passo d’uomo, tutte le autorità, come ad esempio i Carabinieri, la Polizia, i Vigili, persino gli uomini e le donne della Protezione Civile, ci facevamo le condoglianze, qualcuno addirittura anche il saluto militare. Molti inoltre sono venuti a casa nostra per farci le condoglianze. Tra questi anche il papà di Manuela (n.d.r. Sgattoni). Tutti avevano capito che per noi don Oreste era uno di famiglia.
Dopo la sua morte una volta l’ho sognato. Ho visto Manuela che camminava vestita da scout, poi è arrivato don Oreste che le si è affiancato, le ha messo un braccio sulla spalla e le ha detto: “Da adesso camminiamo insieme!”. Il nostro è un legame che va oltre la morte.
Cosa resta oggi di don Oreste?
Prima di tutto il ricordo di una persona meravigliosa: don Oreste è stato per noi un fidato, leale ed amato amico di famiglia.
Poi, come lo ha ben definito papa Benedetto XVI, don Oreste è stato “un infaticabile apostolo della carità” a favore degli ultimi e degli indifesi. Nato a pochi chilometri da Rimini e sesto di una famiglia molto povera, ha scelto di vivere il Vangelo in una maniera radicale. Si è caricato di tanti gravi problemi che affliggono il mondo contemporaneo, combattendo e vincendo molte battaglie sociali a favore degli ultimi: contro i pregiudizi nei confronti dei tossicodipendenti e dei carcerati; a difesa della dignità di ogni uomo e ogni donna, talvolta anche in lotte impopolari come quella per il popolo rom e sinto; per la giustizia sociale, a favore degli operai e delle fasce più deboli tra i lavoratori; a favore dei poveri, sia in Italia sia attraverso missioni internazionali, in particolare nello Zambia; a favore delle persone con disabilità fisiche e psichiche, organizzando manifestazioni e convegni, favorendo la vita nelle famiglie ed avviando le prime esperienze lavorative per l’inserimento delle persone svantaggiate nel mondo del lavoro; a difesa delle prostitute vittime di tratta, una lotta quest’ultima che lo ha impegnato per anni e che ha permesso di salvare molto vite. Don Oreste era un prete di strada che ci ha insegnato a vivere il Vangelo con umiltà e semplicità nei modi, ma con rigore e profondità nei contenuti. Il suo impegno sociale a favore dei poveri e degli ultimi è ben riassunto dal suo motto: “Dove noi, anche loro”, un’espressione che incarna la sua visione di una società in cui nessuno viene lasciato indietro.
Infine, di don Oreste resta un’eredità concreta di istituti, cooperative, associazioni e famiglie che proseguono le opere di carità da lui messe in campo e continuano a seguire i suoi insegnamenti, che sono poi quelli contenuti nel Vangelo. Personalmente ritengo la nostra famiglia parte di quella eredità. Oggi in casa siamo in nove! Oltre a me e a mio marito Gioacchino, abbiamo adottato quattro figli: Silvio, Marco, Valerio e Sebastiana. Poi abbiamo una ragazza in affido, gravemente disabile, che si chiama Dijana, e con noi vive anche mio padre Franco. Se conti bene, siamo otto, ma io ho detto nove, perché abbiamo un letto in più per eventuali ospiti e devo dire che quel letto non resta mai vuoto! A volte lo usano i volontari che vengono ad aiutarci, altre volte i seminaristi, altre volte ancora i ragazzi del servizio civile. C’è sempre qualcuno che lo occupa e noi ne siamo felici. Finalmente, dopo varie vicissitudini, non siamo più in affitto o in comodato in strutture non di proprietà, bensì siamo riusciti ad acquistare una casa nostra a Borgo Miriam, in Offida. Purtroppo dal punto di vista burocratico, non possiamo più essere considerati una casa famiglia, perché l’edificio in cui viviamo non ha i requisiti di legge per essere considerato tale (come, ad esempio, la metratura), però per l’associazione “Papa Giovanni XXIII” siamo ancora una casa famiglia e così è anche per chi ci conosce. In effetti è questa l’eredità più grade che don Oreste ci ha lasciato: la capacità di accogliere tutti e di fare famiglia. Questo non ce lo toglierà mai nessuno!