Di Alberto Baviera
Sono diversi i dati forniti in questi giorni dall’Istat sul mercato del lavoro italiano che – come viene sottolineato nella Nota sull’andamento dell’economia – “continua a mostrarsi solido”. Tra i numeri più significativi, a conferma di un Paese che invecchia, quelli che riguardano gli occupati over 50 che superano per la prima volta quota 10 milioni. Della situazione complessiva ne abbiamo parlato con Edoardo Patriarca, presidente dell’Associazione nazionale lavoratori anziani (Anla).
(Foto Associazione nazionale lavoratori anziani)
Dal vostro osservatorio che valutazione date del mercato del lavoro in questo frangente storico?
Da sempre è attraversato da luci e ombre, lo si osserva leggendo anche gli ultimi dati disponibili sui tassi di occupazione. In Italia il numero degli occupati è al massimo dei valori (oltre i 24 milioni, la quota più alta di sempre) tanto che il tasso di disoccupazione è sceso al 6%, il livello più basso dal 2007; cala pure la disoccupazione giovanile anche se rimane tra le più alte in Europa, e aumentano i lavoratori permanenti soprattutto tra gli over 50. Se sul piano quantitativo non si può che esprimere soddisfazione come ha rimarcato il Governo e l’attuale maggioranza, si è un po’ meno soddisfatti se si vanno a leggere i dati nel dettaglio che ci portano a dire che
l’aumento degli occupati non si è tradotto in un miglioramento complessivo delle condizioni di lavoro, né tantomeno nella risoluzione dei problemi strutturali che assillano da tempo il nostro sistema produttivo.
Cosa vi preoccupa maggiormente?
Sono tante le linee di faglia. Cresce il numero degli occupati tra gli uomini e i lavoratori dipendenti mentre diminuisce tra le donne (per gli uomini siamo al 71,8% per le donne ci fermiamo al 53,7%); aumentano le criticità legate al mismatch tra domanda e offerta di lavoro, e sono troppo basse le retribuzioni (sei milioni di persone guadagnano meno di 1000 al mese). Aumentano gli inattivi e soffriamo di una frattura generazionale: nonostante i giovani siano più istruiti delle generazioni precedenti gli under 30 hanno una paga oraria inferiore di un terzo rispetto a quella dei lavoratori over 50. Emerge anche un altro dato strutturale, il modello di sviluppo italiano è ancorato più degli altri Paesi europei alle piccole aziende, spesso micro, le meno produttive, e che trascinano al ribasso il tasso medio di produttività dell’intero sistema economico.
Questi dati confermano le difficoltà della nostra struttura produttiva a mettere a frutto le opportunità che offrono oggi le nuove tecnologie e l’ingresso di generazioni più istruite nel mercato del lavoro.
Un quadro problematico che non soddisfa neppure le aspettative sul lavoro che le generazioni più giovani pongono alle aziende, alla società e alle politiche. La nostra associazione più volte ha rimarcato questo aspetto, quasi che gli articoli dedicati al tema lavoro nella Costituzione trovino oggi un terreno più fertile, più vicino a quello delle giovani generazioni: occupazione ma anche dignità; ricerca di un sano equilibrio tra vita familiare e lavoro; qualità relazionale all’interno delle aziende e una organizzazione più flessibile e inclusiva; formazione permanente e maggiori opportunità di carriera.
Difficoltà non solo verso le nuove generazioni, ma anche con quelle più adulte.
I dati Inps mostrano come in poco più di 20 anni in Italia sono più che raddoppiati i “lavoratori anziani” (erano meno di 5 milioni nel 2004), segno di un’Italia che invecchia…
Gli occupati over 50 superano per la prima volta la quota di 10 milioni, in aumento di 96mila unità sul primo trimestre 2025 e di 422mila unità sullo stesso trimestre del 2024. Un dato che non stupisce visto il trend di invecchiamento della popolazione e la stretta sull’accesso alla pensione. Ma come per i giovani,
perché non cogliere il dato nella sua dimensione positiva e di opportunità per le imprese? Perché non strutturare percorsi di “trapasso” di competenze, più di quanto accade oggi, tra generazioni all’interno delle imprese? Perché non immaginare forme di flessibilità oraria per i lavoratori che si avviano alla pensione per gestire percorsi di positiva inclusione per i giovani di prima occupazione? O per progetti di welfare aziendale, di volontariato di impresa, di responsabilità sociale sui territori?
Su che fronte bisognerebbe intervenire?
Ci troviamo di fronte ad un nuovo paradigma occupazionale, per un lavoro che non produce solo ricchezza ma anche “senso” come ci ricorda l’articolo 1 della Costituzione. Una sfida che non dovrebbe entrare nello scontro ideologico e politico a cui assistiamo quotidianamente. Al contrario, andrebbe assunto come un nodo strategico sul quale cercare la massima condivisione, per pensarci al futuro, valorizzando la pluralità delle opzioni possibili e le migliori competenze ed esperienze in atto in ambito aziendale.
Forse
è giunto il tempo di dedicare meno energie ad aggiustare di volta in volta le norme che regolano il mercato del lavoro illudendosi di governarlo, per impegnarsi maggiormente a sciogliere i nodi strutturali che bloccano – questi sì – la possibilità di trasformazione positiva verso una economia più attenta alla qualità che alle quantità.