Di Doriano Vincenzo De Luca

“La liturgia non è un rito separato dalla vita, ma il luogo da cui scaturisce l’impegno perché ogni persona possa avere vita in abbondanza. A dirlo è suor Alessandra Smerilli, segretaria del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, intervenuta alla 75ª Settimana Liturgica Nazionale che si chiude domani a Napoli. Nella città simbolo del Mediterraneo, la religiosa sottolinea come dalla preghiera e dal pane spezzato scaturisca la responsabilità verso i poveri, l’impegno per la pace e la fraternità capace di accorciare le distanze tra nord e sud del mondo.

Quale significato assume questo appuntamento, anche alla luce delle sfide sociali su cui lei è particolarmente impegnata?

Questa Settimana Liturgica ha un significato speciale perché porta un messaggio di speranza, fede e carità ai fedeli. Ma non si tratta soltanto di un evento ecclesiale: la liturgia ha ricadute anche sociali, perché ci ricorda che il Vangelo è vita in abbondanza per tutti. Come Dicastero, istituito da Papa Francesco nel 2017 attraverso la fusione di quattro realtà precedenti, ci ispiriamo proprio a Giovanni 10,10: “Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”. Vita in abbondanza significa in tutte le dimensioni: materiali, spirituali, di preghiera, liturgiche. È la grazia di Dio che abbraccia la persona in ogni sua parte. La missione della Chiesa, e quindi anche la nostra, è accompagnare i vescovi e le comunità locali per rimuovere gli ostacoli a questa pienezza di vita: disoccupazione, degrado ambientale, violenza, droga, disabilità, salute mentale – un tema sempre più urgente, soprattutto dopo il Covid – senza dimenticare le situazioni di guerra e di crisi che segnano tante popolazioni».

Dunque la fede non è separata dall’impegno sociale. Come spiegare ai fedeli questo legame?

Essere cristiani significa non accontentarsi di una fede solo interiore. Non possiamo alzarci la mattina e pregare senza lasciarci spingere dal desiderio che tutti possano sperimentare ciò che Gesù è venuto a portare. La preghiera e la liturgia devono tradursi in responsabilità concreta: costruire condizioni di vita più dignitose, difendere la casa comune, accompagnare chi vive fragilità. È lì che si misura la verità della fede».

Viviamo un tempo dilaniato dalle guerre. Come restituire speranza e fiducia ai popoli?

La fede è un dono che non possiamo dare noi, ma possiamo predisporre il cuore ad accoglierla. Papa Francesco – in continuità con quanto già affermava san Giovanni Paolo II e poi Benedetto XVI – ci ricorda che la pace inizia disarmando noi stessi. Non a caso il Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2026 ha come tema “Una pace disarmata e disarmante”. Disarmare se stessi significa pregare, vivere con coerenza, diventare artigiani di pace. Ma questo non basta se non si accompagna alla denuncia delle ingiustizie e all’impegno politico e diplomatico per creare le condizioni di una convivenza pacifica. Dal nostro Dicastero seguiamo quotidianamente le situazioni di conflitto: i media italiani raccontano soprattutto le guerre vicine a noi, ma tragedie simili si consumano in silenzio in tanti Paesi africani, dove spesso sacerdoti e religiosi perdono la vita senza che se ne parli. Per questo l’impegno dei cristiani è allargare lo sguardo, portando nella preghiera e nell’azione tutte le guerre e tutte le vittime.

Napoli, città del Mediterraneo, ospita questa edizione della Settimana Liturgica. Da qui può partire un messaggio per ridurre le distanze tra nord e sud del mondo?

Sì, credo che il primo passo per accorciare le distanze – tra nord e sud del mondo, ma anche tra nord e sud di una città, di una comunità, di una parrocchia – sia quello di vivere uniti nella preghiera. Non solo tra cattolici: se vogliamo davvero costruire unità, dobbiamo saper pregare insieme anche con altre confessioni religiose. La liturgia ci nutre, ci fa vivere come fratelli e sorelle, e da lì nasce l’impegno concreto nella società. Un secondo passo fondamentale è cambiare sguardo sui poveri e sugli emarginati: non considerarli solo come destinatari del nostro aiuto, ma come maestri. Hanno tanto da insegnarci, anche nella fede. Ogni volta che incontro persone provenienti da Paesi in guerra, o vescovi che arrivano dall’Ucraina, resto colpita dalla forza della loro testimonianza: storie di speranza e fede vissute nelle condizioni più tragiche. È un insegnamento che noi dobbiamo accogliere con umiltà».

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