di Alessandro Pertosa
In un tempo saturo di parole vuote e analisi infinite, la teologia sembra talvolta smarrire la sua origine profonda: quella del fuoco, dell’urgenza, del canto.
Antonio Spadaro, con la sua intuizione di teologia rapida, riporta l’attenzione su un’altra modalità di «sentire» Dio: non l’elaborazione articolata e progressiva del pensiero, che si fa schema e struttura, ma l’irruzione fulminea dello schianto, del lampo, del rapimento, che attraversa l’uomo fino a sfiorargli le corde più profonde dell’anima.
Per evitare fraintendimenti, però, è necessario intendersi su cosa significhi «sentire» Dio rapidamente. Non si tratta di una corsa o di una sintesi affrettata, precipitosa, ridotta a slogan o impoverita dalla ricerca dell’effetto immediato. Non è l’urgenza compulsiva di dover dire qualcosa a ogni costo, né la tentazione di piegare il mistero e la trascendenza alle logiche della comunicazione veloce dei social. Si tratta, invece, di ribaltare il piano dello sguardo e cogliere l’intensità spirituale di un pensiero che si accende e si fa luce, dandosi nello spazio vitale come stupore creativo.
In questo senso, oserei suggerire, la teologia rapida non è affatto distante dalla poesia, le è anzi sorella. Direi ancor meglio: la poesia è forse la forma più pura, più radicale di teologia rapida. Anche la poesia, infatti, non nasce dal calcolo, ma dalla folgorazione. Non spiega, ma rivela. Non discorre, ma fa accadere la voce, la fa essere. È l’arte di dire l’indicibile, o almeno di sfiorarlo. È – nella formula più semplice che posso provare a balbettare – il disperato tentativo di dire ciò che non si può dire, sapendo di non poterlo dire, ma volendo dirlo lo stesso. Così come la teologia rapida, la poesia è l’arte di pensare l’Infinito senza volerlo rinchiudere, è forma-sformata dell’immediatezza. Ma, è bene ribadirlo, non s’intende qui un’immediatezza banale, epidermica – bensì un’immediatezza abitata, gravida, spirituale. È ciò che accade quando la parola, lungi dall’essere strumento, si fa evento. Quando il linguaggio non viene usato per indicare o insegnare, ma accade nello splendore poliedrico e cangiante del segreto istantaneo. E in quel punto esatto – nel punto in cui la parola smette di spiegare e comincia a rivelare – la teologia e la poesia si toccano, si confondono, si fondono. Entrambe si pongono come soglia verso l’alterità. Entrambe richiedono silenzio per essere ascoltate davvero. Entrambe sono rapide nel senso più alto: avvengono in un istante, ma in quell’istante spalancano l’eterno.
Pensiamo ai Salmi. Non sono trattati, né discorsi sistematici: sono gemiti, grida, canti, silenzi. Sono poesia e sono teologia nel medesimo gesto. Non ci insegnano chi è Dio, ma ci mettono di fronte a Lui. Lo fanno presente. E lo fanno nel tempo dell’urgenza, nel tempo dell’anima, non nel tempo dell’orologio. Così anche la poesia più autentica non si limita a descrivere un sentimento, ma lo compie, lo crea. Allo stesso modo, la teologia rapida non si limita a dire Dio, ma accade miracolosamente davanti ai nostri occhi così come Dio stesso accade: in un istante pieno, imprevedibile, bruciante.
Ecco perché il teologo, in questa prospettiva, diventa poeta. Non nel senso estetico, ma nel senso profondo del termine: poiein, fare, creare, generare. Il teologo rapido – o meglio, il teologo rapito – è colui che riceve una parola non sua e la offre senza trattenerla. Come il poeta vero, non è padrone del proprio dire. Scrive sotto dettatura interiore. La sua voce trema, perché sa di non essere governata né governabile. È una voce prestata. Come accade a Giovanni nel Prologo, che non parla di luce, ma con la luce. Non racconta la Parola: la lascia accadere. E in questo dispiegarsi del verbo la teologia poetica e la poesia teologica si fondono in un unico atto.
L’esperienza poetica – quando è autentica – è sempre teologica. E non nel senso di religiosa o catechetica, tutt’altro. È teologica nel senso che tende al divino, si apre all’estremo, tocca il mistero, lo sfiora, lo custodisce senza profanarlo. E l’esperienza teologica – quando non è ridotta a sistema o a ideologia – è sempre poetica: è annuncio, visione, urgenza. La teologia rapida, allora, non è una categoria accademica: è un atto spirituale, è una disposizione dell’anima che ascolta, che attende, che non teme di essere attraversata. È il cuore che vibra alla soglia del senso. È la parola che si dà come un dono improvviso, mai posseduto.
A partire da qui, mi pare si possa rintracciare un saldo punto di incontro tra la voce teologica e quella poetica. Poesia e teologia si incontrano dove la parola si fa fragile e, proprio per questo, essenziale. Dove non si ha più tempo per le definizioni, ma solo per le invocazioni. Dove il dire è un rischio, eppure necessario. Dove il silenzio non è rinuncia, ma pienezza. È in quella soglia estrema e vorticosa che la teologia rapida si fa poetica: non perché usi metafore, ma perché è essa stessa una metafora vivente dell’incontro con Dio. Un incontro che non si argomenta, ma si vive. Che non si spiega, ma si contempla. Che non si impone, ma si riceve come un verso improvviso, come una parola che arriva da altrove e dice ciò che non sapevamo di sapere.
Dio si rivela nei tremiti, non nei trattati. Nell’urlo di Giobbe. Nella corsa infinita degli amanti nel Cantico dei Cantici. Nella lode di Paolo, scritta in catene. E si rivela – ancora oggi – in ogni parola poetica che non cerca l’applauso ma lo stupore, che non cerca effetto ma rivelazione. In ogni parola rapida, rapita, in cui il pensiero non spiega Dio, ma si lascia trascinare verso il divino. Perché la teologia più autentica, come la poesia più alta, non nasce per spiegare il mistero. Nasce per abitarlo.