
Di Maria Elisabetta Gramolini
I dodici giorni di conflitto con l’Iran, alla fine, non hanno avuto gli esiti sperati. Netanyahu aveva da tempo indicato il programma nucleare iraniano come una minaccia, ma l’operazione bellica, malgrado il massiccio intervento degli Stati Uniti, non sembra aver raggiunto gli obiettivi prefissati. Alessandro Politi, direttore della Nato Defense College Foundation (Ndcf), suggerisce che l’attacco possa essere stato un tentativo, da parte del presidente israeliano, di spostare l’attenzione da questioni interne, come la situazione a Gaza. Anche l’appello per un cambio di regime a Teheran, rivolto al popolo, non ha avuto l’effetto desiderato. Al contrario, sembra aver rafforzato il nazionalismo e la presa del regime sulla società. L’Iran, poi, ha dimostrato una certa abilità diplomatica, ottenendo – pur senza far nulla – l’approvazione parlamentare per la chiusura dello Stretto di Hormuz, a differenza del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che prima di bombardare non è passato per il Congresso.
I dodici giorni di guerra fra Israele e Iran (con annesso intervento statunitense) cosa lasciano?
Un’operazione politicamente fallimentare per Israele. È dal 2006 che Netanyahu annuncia che il programma nucleare iraniano è un’imminente minaccia per Israele. Allo stesso tempo, va ricordato che, già in passato, Bill Clinton rifiutò di bombardare la Corea del Nord, anche in presenza di un concreto rischio nucleare. Trump, invece, ha colpito per un insieme di considerazioni politiche e strategiche di non facile lettura (rischio nucleare, ruolo dell’Iran in Medio Oriente, rapporti con Israele), sapendo che nemmeno le superbombe MOP potessero veramente distruggere l’impianto nucleare di Fordow. In più,
Netanyahu sapeva benissimo che non poteva attaccare certi impianti, ma gli serviva allargare il fronte, vista la situazione interna certo non brillante (operazione Gaza più problematica del previsto, problemi politici e personali).
Ha inoltre pensato che, avendo indebolito Hamas e Hezb’Allah, potesse ristrutturare il Medio Oriente e possibilmente togliere l’unico antagonista strategico tra Golfo e Levante, ovvero l’Iran.
E infatti Netanyahu aveva parlato di cambio di regime per Teheran e invitato il popolo iraniano a ribellarsi.
In realtà, l’attacco ha rinfocolato il nazionalismo patriottico del Paese e ha avuto come risultato l’aumento della presa sulla società da parte del governo. L’operazione è stata notevole dal punto di vista tecnico, ma era insufficiente sin dall’inizio. Alla fine contano i risultati politici, e l’Iran è ancora politicamente in piedi, ad un tavolo di trattative che è meglio di una guerra e con un programma solo intaccato.
Dettaglio tipicamente persiano: il governo ha prima chiesto al parlamento l’autorizzazione a chiudere lo Stretto di Hormuz senza far nulla, cosa che Trump non ha fatto col Congresso, bombardando e creando problemi di legittimità politica all’interno del suo Paese.
Nel frattempo, gli israeliani hanno purtroppo scoperto che cosa significhi essere bombardati pesantemente. Netanyahu ha accettato a malincuore la tregua, anche perché il suo apparato militare era al limite, sottoposto a uno sforzo superiore alle abituali guerre lampo.
La tensione resta comunque alta anche per il rischio attentati?
Per ora è interessante notare che anche nel Golfo le ambasciate americane non siano a un livello di allerta alto, ma a quello che in gergo tecnico si chiama stato di allerta “alfa più”. La sostanza è che, quando si conduce un gioco politico-diplomatico, non si fanno gesti vuoti, ma operazioni militari o speciali che abbiano un effetto politico. E questo gli iraniani lo sanno fare molto bene. In questi 12 giorni è successo che Trump è tornato al tavolo delle trattative e gli israeliani hanno dovuto accettare. Israele non ha una strategia politica per il Medio Oriente, se non quella di dominarlo con una supremazia militare indiscussa. Tuttavia, ha il consenso regionale politico e culturale per farlo? Dopo 75 anni, è il momento per Tel Aviv di porsi questa semplice domanda, specie dopo la messa in ghiacciaia degli accordi di normalizzazione.
Infine, sul fronte ucraino, Trump ha deciso che darà i missili Patriot a Kiev.
È una buona notizia, ma non cambia la sostanza di una posizione statunitense a favore di una rapida fine della guerra, senza tanti ma.
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