(Foto Siciliani-Gennari/SIR)

Di Sofia Livieri

Nel turbinio incessante del nostro mondo, dove la frenesia digitale detta il ritmo di ogni istante, una domanda si fa strada: cosa significa sperare in un contesto così iperconnesso e in continuo mutamento? Siamo immersi in un flusso ininterrotto di informazioni e stimoli, e la ricerca di spazi per l’interiorità e il confronto autentico si rivela una sfida sempre più pressante.

La tirannia della connessione: quando la noia scompare. La rivoluzione digitale ha permeato ogni aspetto della nostra esistenza. Non parliamo solo di nuove tecnologie, ma di come smartphone, social media, piattaforme di streaming e un’infinità di messaggi in attesa abbiano colonizzato il nostro tempo. Sembra non esserci più spazio per il vuoto, per l’attesa, per quella sana e talvolta scomoda noia che, paradossalmente, può aprirci le porte dell’interiorità e della creatività.
Siamo costantemente connessi, bombardati da notifiche che ci spingono a essere sempre “sul pezzo”. Ogni attimo di silenzio viene prontamente riempito da un nuovo video, un nuovo post, un nuovo messaggio. Questa perenne attività, che non permette alla mente di riposare e divagare, ci illude di essere sempre produttivi e aggiornati. Mail prezzo è alto: i messaggi in sospeso, le notifiche incessanti, rischiano di costruire un mondo nostro, parallelo, una bolla digitale dove le relazioni si frammentano in emoji e “like”. E qui emerge una verità scomoda: gli altri veri, in carne e ossa, con le loro pause e le loro imperfezioni, possono apparire quasi come un fastidio, un’interruzione in quella frenesia digitale che abbiamo imparato ad amare.A volte, questo sovraccarico diventa tangibile, almeno per me. Mi capita di guardare il telefono, vedere tante notifiche, soprattutto tra i messaggi, ed esserne sopraffatta. Non riesco a rispondere, a dedicarci tempo, e quelle chat rischiano di rimanere lì per giorni. Sento una vera e propria fatica nell’affrontarli, come se fossero montagne gigantesche da scalare, montagne a cui dare una risposta.Nel tempo sto imparando a cercare un equilibrio per me sano. Come? Cercando di staccare, almeno nel weekend, lasciando il telefono fuori dalla vista per dedicarmi alla famiglia, agli amici, alle persone care. È un mio modo per ritrovare l’equilibrio, non sicuramente l’unico.In questo scenario, l’Intelligenza artificiale (AI) si presenta come la punta di diamante della trasformazione digitale. Se da un lato apre orizzonti incredibili per il lavoro e per molteplici aspetti della vita, dall’altro lato amplifica anche le nostre paure più profonde.

La speranza è azione: costruire un digitale a misura d’uomo. Allora, in questo scenario così complesso e in rapida evoluzione, dove si annida la speranza? Non certo nella negazione del progresso, né in un facile ottimismo che ignora le sfide.

La speranza, per noi giovani cristiani e per chiunque creda nel valore della persona, risiede nella consapevolezza che siamo chiamati a essere protagonisti, non semplici spettatori, di questa epoca.

Sperare significa innanzitutto avere fiducia nell’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, e nella sua capacità di discernere il bene. Significa impegnarsi affinché l’innovazione tecnologica e il digitale siano al servizio dell’uomo, e non il contrario. Significa lottare per una digitalizzazione che sia inclusiva, che non lasci nessuno indietro, che garantisca opportunità e dignità a tutti.
Abbiamo il compito di educare le nuove generazioni a un uso critico e consapevole del digitale, a distinguere la verità dalla disinformazione, a coltivare relazioni umane autentiche che vadano oltre lo schermo.Dobbiamo promuovere una cultura che ponga l’etica al centro dello sviluppo tecnologico. È fondamentale imparare a staccare, a riabbracciare il silenzio, la riflessione, quella “noia creativa” che ci permette di riappropriarci del nostro tempo. Dobbiamo ritrovare il gusto del confronto reale, della condivisione senza filtri, del tempo donato all’altro senza distrazioni.

In questa quotidianità frenetica, la tecnologia può paradossalmente diventare un ponte verso la spiritualità.

Anche quando gli impegni delle giornate, il lavoro o i tanti chilometri da percorrere non mi permettono di trovare il tempo per aprire la Parola di Dio, sfrutto la tecnologia per pregare. Solitamente accade così: al mattino, con 80 km da percorrere in autostrada, il podcast con la Parola del Giorno del Vaticano, l’omelia del Papa o il commento di altri trasformano il viaggio verso il lavoro in un momento di preghiera. Non è forse la forma ideale di preghiera, almeno per me, ma è in questa quotidianità ricca di impegni che prende forma l’essere giovane, credente, lavoratrice, amica, responsabile.
La speranza non è un’attesa passiva, ma un verbo che ci spinge all’azione. È la convinzione profonda che, con l’aiuto della Grazia e con il nostro impegno, possiamo plasmare un futuro in cui l’iperconnessione sia un ponte verso una maggiore solidarietà e non un muro che ci isola.

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