(Foto Siciliani-Gennari/SIR)

Di Elena Giannini

Quante volte ti sei sentito dire che “una volta sì che c’erano valori” o che “non ci sono più i giovani di una volta”? Quante volte hai sentito adulti scuotere la testa, sospirare e concludere con un preoccupato “chissà dove andremo a finire…”? Cresciamo in un mondo che ci vende un futuro in crisi prima ancora di avercelo fatto vivere. Un mondo in cui il passato è mitizzato e il domani è raccontato come un disastro annunciato.
Ma fermiamoci un attimo: su che basi diciamo tutto questo?
A guardare i dati, forse le cose stanno diversamente. Forse la narrazione del disastro è comoda per chi non vuole più cambiare. Ma non è l’unica possibile.

I giovani partecipano, innovano, si impegnano. E la realtà, anche se faticosa, non è tutta buia come viene dipinta.

Allora sì, parliamo di speranza — ma non come rifugio, come scelta concreta. Hans Rosling, medico e statistico svedese, autore del libro “Factfulness” faceva un giochino durante le sue conferenze: poneva domande sul mondo alle persone — e poi confrontava le loro risposte con quelle… degli scimpanzé. Il risultato? Gli scimpanzé vincevano quasi sempre. Non perché fossero più intelligenti, ma perché sceglievano a caso. Gli esseri umani, invece, rispondevano basandosi su percezioni distorte, costruite in anni di notizie negative e narrazioni catastrofiste. Il paradosso? Nella maggior parte dei casi, la risposta giusta era quella più ottimista — ma sembrava talmente improbabile da non essere neppure presa in considerazione.
Forse è così anche con il futuro dei giovani. Non è nero: ma a questa unica narrazione pare che ci stiamo abituando e accontentando.
Secondo AlmaLaurea, a cinque anni dalla laurea magistrale lavora l’88,2% dei laureati. È un dato alto, stabile nel tempo, che mostra come la formazione universitaria – nonostante le difficoltà – offra ancora prospettive solide di inserimento lavorativo. Anche per i diplomati la situazione non è così disastrosa come si sente dire. I dati Istat mostrano che il tasso di occupazione dei giovani diplomati (20-34 anni, 1-3 anni dal diploma, non più in formazione) è in costante crescita: era 49,9% nel 2021, è salito al 56,5% nel 2022 e ha raggiunto il 59,7% nel 2023. Non è un traguardo, ma è un miglioramento netto in pochi anni. E ancora: la tanto citata “generazione Neet” non è più quella di una volta. Nel 2023, la quota di giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano e non si formano è scesa al 16,1%, il valore più basso da quindici anni. Un calo di quasi 3 punti percentuali in un solo anno, e di oltre 7 punti dal 2021.Certo, non tutto è positivo. L’Italia resta sopra la media europea per numero di Neet, con divari territoriali enormi: nel Mezzogiorno siamo ancora al 24,7%, più del doppio rispetto al Nord. E il lavoro non è sempre stabile, né sempre di qualità. Ma il quadro non è quello di un disastro irreversibile. Le cose non sono perfette, ma stanno migliorando.
E allora, se il futuro non è già segnato, viene naturale chiederci: che ruolo abbiamo noi nel costruirlo?

La differenza, a questo punto, non la fanno solo i dati. La fa lo sguardo con cui li leggiamo. Perché i numeri possono dire molto, ma non bastano: serve spirito critico, serve la capacità di domandarsi se ciò che ci viene raccontato è vero, da chi e perché.

Serve allenamento a distinguere tra percezione e realtà, tra “si dice” e “sta scritto”, tra rassegnazione e possibilità. Ed è qui che entra in gioco la scuola. Non solo come luogo in cui si acquisiscono conoscenze, ma come palestra di cittadinanza. Una scuola che ti insegna a confrontarti, a usare dati e argomenti, a discutere civilmente, a votare con criterio, a lavorare con serietà: questa è una scuola che costruisce speranza. Anche esercitarsi a partecipare alle decisioni, votare in un consiglio di classe, proporre un’assemblea, discutere di come migliorare il proprio ambiente scolastico — sono piccoli atti che insegnano che si può contare, e che si può cambiare.

Così come fare bene il proprio mestiere, studiare con competenza, essere affidabili nelle cose quotidiane: anche questo è un modo concreto per generare fiducia, per rendersi credibili.

Perché la speranza non è una nuvola su cui salire domani, è una strada da percorrere oggi. E la si costruisce con quello che si è, quello che si sa, e con chi si sceglie di camminare. Allora sì, possiamo ancora parlare di speranza. Ma non come favola, né come premio per chi aspetta in silenzio. Sperare, oggi, significa scegliere di non accettare narrazioni stanche, informarsi, partecipare, mettersi in gioco. Significa allenarsi — a scuola, nel lavoro, nella vita pubblica — a pensare in modo critico, a fare con responsabilità, a costruire con altri.

Sperare, in fondo, è un verbo attivo. E se vogliamo davvero un mondo in cui i giovani siano considerati capaci di portare un contributo significativo, siamo noi i primi a doverlo rendere credibile. Oggi. Subito. Insieme.

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