“All’abominevole attacco subito il 7 ottobre 2023 Israele ha risposto con un’azione militare la cui sproporzione è diventata nel tempo sempre più evidente. L’uccisione indiscriminata di civili, molti dei quali donne e bambini, e la riduzione alla fame dell’intera popolazione della Striscia di Gaza sono inaccettabili”. È quanto si legge nell’ultimo numero della newsletter della Fondazione Oasis, diffuso oggi, che titola “Ascoltiamo il grido di Gaza – Perché non possiamo restare indifferenti di fronte alla sofferenza della Striscia”. “Se all’inizio della guerra lo Stato ebraico poteva invocare la necessità di debellare Hamas, il cui cinismo nel condurre alla catastrofe la propria popolazione non va in nessun modo sottaciuto, il prolungamento delle operazioni belliche – prosegue il testo – non sembra avere altro scopo che la pulizia etnica della Striscia, come peraltro dichiarato esplicitamente da diversi esponenti politici e militari israeliani. La situazione della Cisgiordania, dove la popolazione palestinese subisce sistematicamente gli abusi dei coloni e dell’esercito di occupazione, va nella stessa direzione”. A 20 mesi dallo scoppio delle ostilità, “dopo la netta vittoria su Hezbollah in Libano, la caduta del regime di Assad, il rafforzamento della presenza sull’Hermon, l’annientamento dell’esercito siriano, i colpi inferti all’Iran e con la Striscia completamente isolata, non sono considerazioni di sicurezza a spingere il governo israeliano a una nuova operazione di terra a Gaza”. Per Oasis “l’attuale catastrofe ha radici profonde e non può essere ricondotta esclusivamente alle decisioni dell’attuale maggioranza di governo. Uno snodo fondamentale è rappresentato dall’occupazione della Cisgiordania, della Striscia di Gaza e di Gerusalemme Est nel 1967. Dopo la vittoria nella Guerra dei Sei Giorni, Israele si è illuso di poter conciliare una vibrante vita democratica in patria con un duro regime militare nei Territori occupati, accompagnato da una crescente campagna di colonizzazione. Tuttavia, anno dopo anno l’occupazione ha trasformato non solo l’occupato, privato dei suoi diritti fondamentali, ma anche l’occupante. Ha favorito l’emergere di un fondamentalismo religioso sempre più aggressivo nei due popoli e ha minato la qualità della vita politica in Israele, ponendolo di fronte al dilemma insolubile di scegliere tra identità ebraica e regime democratico”. Dinamiche che “il lungo ventennio dei governi guidati da Benjamin Netanyahu ha reso sempre più evidenti, che sono oggi denunciate anche da numerosi cittadini israeliani, sempre più preoccupati dalla deriva autoritaria che il loro Paese sta assumendo. Sono i sintomi, tra loro collegati, di un male più profondo, l’occupazione, che chiede di essere affrontato. Finché non si scioglie quel nodo, ma anzi lo si stringe aggiungendo nuovi insediamenti, la spirale dell’odio continuerà ad avvitarsi su sé stessa”.
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