
Di Patrizia Caiffa
Oggi è morto un prete umile, un grande visionario. Un uomo buono che ha rivoluzionato la percezione e la realtà del mondo della disabilità in Italia e nella Chiesa italiana: don Franco Monterubbianesi, 94 anni, di Fermo, fondatore della storica Comunità di Capodarco, una realtà ecclesiale che ha trasformato la disabilità da una condizione di emarginazione a una risorsa di crescita collettiva. La sua cultura dell’inclusione e dei pari diritti per le persone con disabilità continua a influenzare positivamente la società italiana.
Ho conosciuto don Franco durante un viaggio in Guatemala nel 1997, dove la Comunità di Capodarco internazionale aveva uno dei suoi progetti più importanti, nel barrio El Limon di Città del Guatemala. Era uno dei miei primi viaggi in America Latina e fu per me uno scioccante “battesimo della povertà”. I bambini di strada che sniffavano colla, la miseria toccata con mano nella pericolosa baraccopoli di El Limon, dove nemmeno i tassisti volevano entrare. Qui un prete di strada, don Pedro Nota, missionario fidei donum, faceva il possibile per aiutare la popolazione che viveva in condizioni prive di ogni dignità. Aprii gli occhi su un mondo ancora sconosciuto, quello delle tante povertà e degli oppressi. Da allora non li ho più chiusi. Per tutto ciò sarò eternamente grata a don Franco e alla Comunità di Capodarco.
Perdemmo la coincidenza aerea a Parigi e rimanemmo lì per una notte. Durante la cena mi raccontò la sua storia incredibile, in un turbine di parole che mi stravolse. Aveva una particolare affezione per i giornalisti e per i giovani, a cui comunicava con entusiasmo tutta la sua travolgente visione e passione, i suoi progetti (con la g dolce del marcato accento marchigiano). Scoprii come nel 1966, durante un pellegrinaggio a Lourdes con uno dei famosi “treni bianchi”, il giovane prete entrò in crisi. Decise che quel modello di assistenzialismo andava cambiato. Che bisognava dare dignità alle persone con gravi disabilità. Quell’esperienza lo cambiò per sempre e orientò il suo impegno in quella direzione.
Così nel Natale del 1966 diventò un prete di frontiera e decise di fondare a Capodarco di Fermo, nelle Marche, insieme a 13 persone con disabilità, una vera comunità di vita basata sull’autodeterminazione e la condivisione. Si viveva insieme, si condividevano gioie e dolori, si litigava, ci si riappacificava. I primi matrimoni tra persone con disabilità furono proprio a Capodarco. Le prime lotte sociali e politiche per emancipare i disabili partirono culturalmente proprio da lì. Dal successore di don Franco, don Vinicio Albanesi, nacque l’idea di creare “Redattore sociale”, agenzia di stampa specializzata proprio nel sociale, che ha purtroppo dovuto chiudere qualche mese fa per mancanza di risorse. A Capodarco di Fermo si sono formate intere generazioni di giornalisti che si occupavano di temi sociali, durante i seminari che si svolgevano ogni anno.
Questo approccio ha portato alla creazione di una rete di comunità in tutta Italia, ognuna con autonomia gestionale ma unite da principi comuni. Oggi, la Comunità di Capodarco è presente in 14 città italiane e 4 all’estero, accogliendo ogni anno circa 1.400 persone tra comunitari, operatori, volontari e obiettori di coscienza. Oltre alle persone con disabilità le comunità accolgono anche malati psichiatrici, emarginati, giovani in difficoltà.
Tornai in Guatemala nel 1999 senza don Franco grazie a lui e alla Comunità di Capodarco internazionale (Cica), per scrivere un libro sui progetti della Comunità di Capodarco in quel Paese e raccontare il genocidio dimenticato di oltre 200.000 guatemaltechi assassinati durante una feroce guerra civile, appoggiata dagli Stati Uniti che sostenevano la dittatura del generale Rios Montt. Un conflitto che durò 36 anni, fino al 1996, con un milione e mezzo di rifugiati, orfani, vedove, desaparecidos, vittime di torture. Don Franco ci teneva che fosse conosciuto al mondo.
Il suo era un impegno a 360 gradi perché non smetteva mai sognare e di espandere la sua visione anche in altri Paesi del mondo. Anche senza risorse gettava il cuore oltre l’ostacolo e andava avanti indomito, con fatica e dolore ma senza scoraggiarsi mai. È stato infatti anche un punto di riferimento per le nuove generazioni, promuovendo il protagonismo giovanile tramite l’Associazione Noi Ragazzi del mondo. Ho continuato a sentirlo spesso, negli anni. Ogni telefonata era un nuovo progetto che voleva diffondere e comunicare tramite i media.
69 anni di sacerdozio, nell’ultimo periodo della sua lunga e fruttuosa vita ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui il Premio nazionale “Per amore del mio popolo”, conferito dal Comitato Don Peppe Diana per il suo impegno a favore dei più deboli. Ha continuato a lavorare alla stesura del suo libro “Gli ultimi miei 20 anni di resistenza”, con l’intento di trasmettere alle future generazioni l’importanza della solidarietà e dell’impegno civile. “Cercherò di aiutare i giovani a ritrovare la speranza perduta. È l’obiettivo finale della mia vita”, diceva.
I funerali si svolgeranno giovedì 29 maggio nel Duomo di Fermo (ore 15), dove è nato il 30 maggio del 1931. La salma è esposta nella cappella della Comunità di Capodarco di Fermo.
0 commenti