PROVINCIA – Scrivo questa riflessione dal carcere, dove lavoro come mediatore culturale. Il mio intento è offrire uno sguardo dall’interno su un mondo poco conosciuto, che dovrebbe aprirsi di più alla società per essere compreso.
Il carcere, infatti, è uno specchio: riflette chiaramente le tensioni, le mancanze e le sfide che attraversano l’intero tessuto sociale.
Durante i colloqui con i detenuti stranieri, ciò che spesso emerge è una rabbia profonda. Le sue cause sono molteplici. Alcuni non accettano la punizione, convinti di non aver commesso reati gravi o di essere stati vittime di ingiustizia. Altri soffrono per la convivenza forzata con persone sconosciute, talvolta affette da disturbi psichici o dipendenze. Molti, infine, avvertono l’incoerenza di un sistema che si dichiara riabilitativo, ma che, per come è strutturato e per la cronica mancanza di risorse, spesso ostacola proprio la rieducazione.
Ma c’è un filo rosso che unisce quasi tutte queste esperienze: la sensazione di non essere stati accolti al loro arrivo in Italia. Non sempre c’è una connessione diretta tra la mancanza di accoglienza e l’ingresso in carcere, ma in diversi casi sì.
Alcuni, privi di permesso di soggiorno, sono finiti nelle maglie delle reti criminali, straniere o italiane. Questa esclusione iniziale ha generato un clima di sospetto e chiusura, che si riflette anche all’interno delle carceri: i rumeni stanno tra loro, così come i moldavi, gli albanesi, gli ucraini, gli arabi – spesso divisi anche per appartenenza religiosa.
Molti di questi detenuti, una volta scontata la pena, rimarranno in Italia. Hanno qui una famiglia, una casa, una vita. Ed è qui che il carcere torna a essere specchio della società: l’assenza di legami tra persone di culture diverse è il riflesso di una più ampia mancanza di politiche efficaci di integrazione.
Cosa è stato fatto, realmente, in Italia per favorire l’incontro tra cittadini italiani e stranieri? Quanto abbiamo investito, come comunità, nella costruzione di un tessuto sociale realmente inclusivo? Quante volte abbiamo assistito a conflitti tra giovani di diversa origine per divergenze culturali mal comprese o mai affrontate?
Tentare di imporre un’unica scala di valori, un’identità culturale rigida e precostituita, ignorando i percorsi personali, è una forma di violenza sottile. Significa impedire la costruzione di un’identità piena, libera e autentica. Se a bambini e adolescenti cresciuti in Italia continuiamo a ripetere che sono “stranieri” fino ai diciott’anni, trasmettiamo loro il messaggio che non appartengono davvero a questo Paese. E quando, finalmente, ottengono la cittadinanza, è spesso troppo tardi: sono adulti che si sentono ancora esclusi, arrabbiati, feriti. Persone che dicono: “Non ci avete voluti, ora non vogliamo voi”.
Questa rabbia è un pericolo concreto. Non si risolverà con la fuga o la rinuncia alla cittadinanza. Il vero rischio è restare una società frammentata, abitata da individui incapaci di sentirsi parte di un progetto comune.
Per questo è fondamentale, parlo per la mia esperienza a livello personale, dire SÌ al referendum dell’8 e 9 giugno, che propone il riconoscimento della cittadinanza italiana dopo cinque anni di residenza.
È un passo necessario per sanare ferite profonde e costruire una società più coesa, dove nessuno sia costretto a vivere da straniero nel Paese che chiama casa.
Gabriella
bravissima, chiara e puntuale nella descrizione della realta