ASCOLI PICENO – “Credo che sia un libro prezioso. Ha infatti il pregio indubbio di utilizzare la Scrittura come paradigma. Questo significa che la Parola di Dio ha la capacità di parlarci proprio nel momento in cui la narrazione biblica incrocia la nostra vita personale e quella della comunità. In questa maniera un paradigma biblico diventa estremamente vitale. La narrazione non è più semplicemente relegata nel passato. In questo caso un tempo davvero passato, visto che stiamo nell’VIII secolo a. C., in una fase molto antica della storia di Israele. Eppure è di una straordinaria attualità, perché questa Parola interpreta la vita personale e la vita ecclesiale dell’oggi”.
Sono queste le parole usate dall’arcivescovo Gianpiero Palmieri, vicepresidente della CEI e vescovo delle Diocesi del Piceno, per descrivere l’ultima fatica letteraria di don Dino Pirri, il libro “La vocazione indecente – Osea, la prostituta e la Chiesa morente”, presentato Venerdì 9 Maggio, alle ore 18:00, ad Ascoli Piceno.
A dialogare con l’autore ed il prelato è stata Eleonora Tassoni, libraia della libreria Rinascita che ha ospitato l’evento. Presente tra il pubblico anche Donatella Ferretti, insegnante, filosofa e scrittrice, nonché assessora alla Pubblica Istruzione per il Comune di Ascoli Piceno.
Il libro di don Pirri, che è edito da Edizioni San Paolo e vanta una prefazione scritta dal teologo e scrittore Paolo Curtaz, è già stato presentato in diverse occasioni, sia nel territorio del Piceno sia a Roma, oltre che in alcuni consessi radiotelevisivi, come Radio Vaticana e TV2000. Quella di Venerdì pomeriggio, dunque, è stata solo l’ultima delle presentazioni dell’opera che prosegue ad interessare un pubblico sempre più ampio.
“La vocazione Indecente”, come affermato dalla moderatrice Eleonora Tassoni, “racconta una storia della Bibbia, forse non molto conosciuta, ma quanto mai toccante. È infatti la storia di una relazione ferita e di come a volte proprio le situazioni più difficili e le ferite ci obbligano a fare quel passo in più, a diventare più responsabili, a prenderci magari sulle spalle le fragilità dell’altro per aiutare l’altro a uscire. È la storia di un uomo, Osea, il quale ha una moglie che non possiede assolutamente le virtù di una buona sposa, anzi è una donna in qualche modo perduta. Eppure, nonostante questa condizione della donna e nonostante la legge e la cultura della sua epoca gli impongano di rinnegare questa sposa fedifraga, Osea decide di riprenderla con sé, diventando l’incarnazione di quello che è il cammino del popolo a cui appartiene, Israele, una comunità di persone legate alla fede, che però molto spesso si perdono. Questo costante rimando tra l’uomo, che deve affrontare la sua fragilità personale, e il profeta, che invece affronta la fragilità di tutta una comunità, è qualcosa che mi ha profondamente toccato”.
Nel corso della serata, mons. Palmieri ha detto: “Ovviamente il libro ha una tesi di fondo e, proprio nel momento in cui interpreta l’oggi, la ribadisce. Questa tesi di fondo è la straordinaria, scandalosa e, per certi versi, indecente priorità della gratuità dell’amore di Dio. E qui forse noi non ci rendiamo mai fino in fondo conto di quale sia la posta in gioco! Noi normalmente noi siamo abituati a pensare nei termini di un amore molto condizionato, un amore che funziona soltanto nel momento in cui trova da parte nostra una disponibilità a corrispondermi, una disponibilità prestazionale a dimostrare che noi siamo in qualche maniera capaci di meritare questo amore. È molto difficile parlare di un amore che ci trova nudi, ma proprio totalmente nudi, spogli, a mani vuote, incapaci in qualche maniera di giustificare noi stessi.
Normalmente nella prassi, anche della Chiesa, c’è prima il fatto che ti penti, poi ricevi il perdono. In mezzo ci sono poi tante altre cose: prima ti penti, poi dimostri che ti sei veramente pentito, poi cominci i segni di una vita nuova, poi fai i santi propositi e poi, poi, poi … Poi no. La storia di Osea ci dice che l’ordine non è questo: non è che prima ti penti e poi ricevi il perdono. Nella Scrittura la priorità è esattamente l’opposto: prima c’è un amore che ti spiazza e ti sorprende, di cui non hai assolutamente nessun merito. Poi, una volta che ti senti amato così, forse decidi di cambiare vita. Le cose si fanno sempre per due motivi: o lo fai per dovere o senso di colpa oppure lo fai per amore. Un amore che sperimenti solo quando ti senti molto amato. L’osservazione che giustamente Dino fa è: ‘Ma noi, come comunità cristiana, riusciamo a parlare di questo amore oppure no? O forse proprio tutto quello che abbiamo messo in atto, anche nel dopo Concilio, quindi in un periodo di grande fermento della Chiesa, va nella direzione di un Dio un po’ troppo prestazionale? Stiamo parlando di Dio, raccontando e testimoniando questo amore sovrabbondante alle persone che incontriamo, con cui abbiamo a che fare?’ Forse c’è una stanchezza nei confronti di Dio e della Chiesa che nasce dal fatto che magari non siamo stati capaci di parlare di questo amore. E, capitolo dopo capitolo, utilizzando le parole e le arringhe pure di Osea, Dino fa vedere tante contraddizioni della Chiesa di questi nostri anni, di cui lui – come me e forse anche voi – è stato protagonista”.
Di questo amore incondizionato, fatto di grande misericordia, mons. Palmieri ha continuato a parlare, raccontando anche un aneddoto personale che riguarda Papa Francesco: “La prima volta che ha incontrato il clero di Roma, Francesco ha chiesto che l’incontro fosse una liturgia penitenziale. Il Papa ci ha chiesto di confessarci tra noi a San Giovanni in Laterano, lui ci avrebbe raggiunto per fare un discorso alla fine. Quando è arrivato, ha scelto un confessionale a caso, si è confessato con il prete che stava dentro al confessionale, poi ha preso il proposto e si è messo dentro al confessionale. Lì, in fila, da una parte, c’era un mio amico, un prete giovane. Immaginate: stai per confessarti e improvvisamente cambia il confessore e arriva il Papa! Il mio amico stava vivendo un momento molto difficile e scoppia a piangere, dicendo: ‘Io sono molto debole, Santità, sono molto debole’. Il Papa gli dice: ‘Un prete che piange è bellissimo!’. Poi gli dà l’assoluzione senza farlo neanche parlare. Questa è l’immagine del primato della misericordia. Non mi interessa sapere che hai fatto, non sto qui ad indagare, non sono io il giudice; io sto qui a dirti che le tue lacrime sono segno di qualcosa e ti perdono. Questo primato della misericordia, di cui il mondo ha bisogno come l’aria, lo testimoniamo? La parabola di Osea ci insegna come farlo“.
Rispondendo alle domande della moderatrice Tassoni, don Dino Pirri, ha denunciato una profonda contraddizione della Chiesa di oggi. “A volte è un po’ come se ci sia una sorta di separazione tra quello che è il mondo della fede e quello che è il mondo reale, quello quotidiano. Noi viviamo in un’epoca in cui tutto è prestazione: dobbiamo essere sempre belli, tirati, riusciti, realizzati, cioè non è ammesso l’errore, il fallimento, la fragilità. Lo vediamo in particolar modo nel mondo dei social, dove siamo tutti quanti estremamente patinati, dove dobbiamo dimostrare sempre di essere riusciti, come se qualsiasi caduta rispetto a questa immagine perfetta, ma falsificata, che abbiamo di noi stessi, ci togliesse qualcosa, anzi ci togliesse tutto quello che abbiamo raggiunto. Non riusciamo mai ad accettare nessuna crepa della nostra vita, al contrario di quello che invece ci racconta ed insegna la Scrittura. Il piano della fede, invece, è il piano della vita. È tragico quando noi credenti facciamo una distinzione, come se il Vangelo fosse bello, ma la vita fosse tutta un’altra cosa! Una volta un prete mi invitò a fare una riflessione sul Vangelo all’inizio di un Consiglio Pastorale. Dopo aver terminato, disse: ‘Bene! Ringraziamo don Dino per le cose bellissime che ci ha detto. Adesso passiamo alle cose pratiche’. Come se il Vangelo non fosse una cosa pratica! Ogni volta che leggo la Bibbia, io la vedo spalmata su questo tempo, su questa epoca, su questa civiltà. La vedo spalmata addosso alla Chiesa e ovviamente anche addosso a me. Mi sono accorto di questa ansia da prestazione che abbiamo, della nostra volontà di essere performanti, sempre all’altezza, di voler produrre. Ma tutto questo non ci porta alla felicità, anzi assistiamo ad un aumento delle malattie psichiatriche. Mi sono accorto che, quando anche la Chiesa ha avuto l’ansia di crescere, di essere più rappresentativa, di funzionare di più, di funzionare meglio, il risultato è stato una catastrofe. Come il popolo di Israele che pensava di fare chissà cosa e poi si ritrova nel baratro. E mi sono accorto che questo è profondamente vero anche nella mia vita personale di cristiano: tutte le volte che ho provato a fare forza sulle mie capacità e basta, sulle mie idee e basta, sui miei progetti e basta, ho sbagliato. Ho capito che le cose di Dio le possiamo fare anche dicendo semplicemente di non essere all’altezza, confessando di essere deboli. Così è meglio, perché, così facendo, gli altri scoprono, nelle cose che facciamo, non le nostre capacità o la nostra bravura, bensì Dio. Leggendo ed ascoltando seriamente il Vangelo e le storie degli Apostoli in questi giorni del tempo di Pasqua, ci rendiamo che il Signore ha chiesto a persone come Pietro – che è un codardo, che lo rinnega più volte – di guidare la Chiesa. Se è così, allora c’è spazio anche per me, c’è vita anche per me. Insomma mi sono accorto che mostrarsi nella propria debolezza fa crescere sempre la Verità e Dio riesce a far avanzare il Suo Regno nel mondo. Se Dio si fa trovare nudo, solo, tradito, sconfitto sulla Croce, allora anche io posso farlo. C’è questa leggenda che Gesù sia un grande uomo: dal punto di vista del pensare umano è invece un fallito e niente di più. Questo pensiero mi ha aiutato a rimettere in equilibrio questa Chiesa morente, che sembra tutta storta, ma che forse ci ricorda che il lavoro non è il nostro, ma è del Signore. Pensando a questo, si è abbassato in me l’ormone del giudizio verso gli altri, si sono abbassate anche queste aspettative di dover fare sempre tutto bene, si è abbassata anche l’ansia da prestazione”.
Numerosi gli argomenti trattati durante la presentazione: dai temi emersi dal saluto di Papa Leone XIV, riguardanti la pace, la misericordia e l’universalità a cui la Chiesa è chiamata, allo scandalo della Croce, cioè al fatto che il centro della salvezza cristiana risieda nella crocifissione, la più ignobile morte che veniva data agli schiavi, fino ad arrivare alla figura di Osea che, come ha detto l’autore, “incarna pienamente la figura del perdente, del fallito, perché si mette nel ruolo più sfigato all’interno della sua comunità, sposando una prostituta e in qualche modo diventando egli stesso oggetto di giudizio in quanto contaminato da questa relazione. Anche Lui è condannato, come avverrà per Gesù crocifisso”.
In tal senso il libro non è solo un monito per la Chiesa di oggi, ma anche fonte di una speranza viva e non illusoria. Come per Israele ai tempi di Osea, anche per la Chiesa di oggi c’è una possibilità di redenzione: non importa quante volte sbaglieremo, bensì quante volte saremo capaci di convertirci; non importa quante volte abbiamo sbagliato, bensì quante volte abbiamo permesso a Dio, all’amore di Dio, di tornare nuovamente al centro della nostra vita. Solo se faremo così, saremo salvi.
Franco
Grande Don Dino, perché non lo mettete in parrocchia insieme a Don Gianluca alla chiesa Cristo RE. Grazie
Antonella Di Matteo
lo acquisto lo leggo e lo medito e mi lascio ferire grazie Don Dino!!!!
Stefania
Don Dino e' un grande sacerdote. Lo sto conoscendo solo ora partecipando al cammino delle dieci parole nella parrocchia di Cristo Re... con grande umiltà e semplicità riesce con le sue parole a penetrare lo spirito.. Grazie di cuore...Acquisterò anche il tuo libro.