(Foto FB/Fabio Chiodini)

Di Riccardo Benotti

“La sua strada era quella del dono, della dedizione, del mettersi a disposizione degli altri”. Laura Lucchin, madre di Sammy Basso, ha parlato ieri alla Seconda Assemblea sinodale della Chiesa italiana. Mentre torna a casa a Tezze sul Brenta, in treno, racconta con tono pacato cosa ha significato prendere la parola davanti a una Chiesa riunita: “Non è stato facile. Mi considero una persona riservata, con una vita semplice. Mi sono chiesta più volte: perché proprio io? Poi ho capito che stavo solo continuando un cammino iniziato con lui”. Quel cammino, condiviso per ventisei anni, prosegue ora attraverso la testimonianza: “Sammy non ha mai avuto dubbi. Non ha mai ‘combattuto’ contro la malattia: ha lottato per vivere, per costruire, per lasciare qualcosa. Per lui la vita era quella che aveva. Non cercava altro. E non si è mai lamentato. Ha sempre dato tutto, fino alla fine, senza risparmiarsi”. La sera in cui è morto era uscito per una festa: “Come tante altre volte. Non è più tornato. È stata una frattura improvvisa, definitiva. Ci siamo sentiti smarriti. Era come se il tempo si fosse interrotto”. I giorni successivi sono rimasti sospesi.

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)

Poi un amico fisioterapista ha consegnato alcune lettere che Sammy aveva scritto negli anni: “Una era per me e mio marito. L’aveva affidata a lui molto tempo prima. Leggerla ci ha restituito respiro. È stato come ricevere un ultimo abbraccio, pieno della sua forza e della sua serenità”.

Dopo averla letta, Laura ha deciso di parlare al funerale: “Non sapevo se ce l’avrei fatta. Ma sentivo che dovevo. Sono salita sull’altare con una serenità che non era mia. Sapevo che era lui a sostenermi, ancora una volta. Quella forza, in certi momenti, sembra non venire da te. Eppure c’è”. Nei mesi successivi, il silenzio: “Abbiamo sentito il bisogno di fermarci. Di stare. I ragazzi dell’associazione hanno continuato al nostro posto: interviste, incontri, testimonianze. A noi hanno lasciato tempo, spazio, rispetto. Fino a Natale ci siamo ritirati. Abbiamo ascoltato il dolore. Non per capirlo, ma per starci dentro. Perché certe ferite non si spiegano. Si abitano, giorno per giorno”. Attorno alla famiglia si è mossa una rete solida e discreta: “L’affetto che ci circonda oggi non è nato dopo. È il frutto di ciò che Sammy ha costruito. È una rete silenziosa, ma fortissima. Senza di loro non so come avremmo fatto. Non c’era bisogno di parole: bastava sapere che c’erano”.

Durante l’assemblea, Laura ha detto che la malattia del figlio è stata, per loro, anche un dono: “È un cammino lungo, non privo di domande e di ribellione. Ma poco a poco abbiamo imparato a vedere. La malattia ci ha insegnato a non dare nulla per scontato: la vita, la presenza, il tempo.

Sammy ci aiutava a guardare tutto con occhi nuovi. Ringraziava per ogni cosa: per la luce del sole, per un piatto caldo, per una telefonata.

Sembrano cose da poco. Ma vissute così, cambiano tutto”. Accanto alla gratitudine, la fede: “Fin da piccolo diceva: ‘Io non posso chiedere a Dio di farmi guarire, perché se sono così è perché Lui ha un progetto su di me’. Non ha mai chiesto ‘perché a me’. Accoglieva tutto. Per lui ogni vita era degna di essere vissuta, qualunque fosse la sua forma”.

(Foto FB)

Anche la fede della famiglia si è trasformata nel tempo: “All’inizio forse lo abbiamo accompagnato. Poi è stato lui ad accompagnare noi. La sua fede è diventata la nostra scuola. Ci ha sostenuti nei momenti più duri. E ce ne sono stati, tanti. Ma la fede, in casa nostra, non è mai stata qualcosa ‘in più’. Era parte del quotidiano, delle scelte, dei gesti semplici”. Oggi resta un’eredità da custodire: “Ce lo siamo detti subito con mio marito: continueremo quello che ha fatto Sammy. Non perché dobbiamo, ma perché vogliamo. L’abbiamo iniziato vent’anni fa con l’associazione: raccogliere fondi, sostenere le famiglie, dare voce alla ricerca. Ma anche testimoniare uno stile. Il suo. È una responsabilità che non pesa, ma che sentiamo dentro”. Uno stile fatto di attenzione, misura, dedizione:

“Sammy non considerava straordinaria la sua vita. Era la sua normalità. Una vita spesa bene, senza trattenere nulla”.

Laura sceglie parole pesate: “Io, che sono sua madre, sto ancora cercando quella pace. Perdere un figlio è contro ogni logica. È una ferita che non si chiude. Ma cerco, ogni giorno, di seguirlo. Lo faccio nei gesti quotidiani, in ciò che continuo, nel modo in cui provo a guardare gli altri”. Intorno, l’affetto di chi continua a scrivere, telefonare, fermarsi per strada: “Ci dicono: ‘Mi ha cambiato la vita’. Anche solo ascoltando un’intervista, leggendo un pensiero. Spesso ringraziano noi, perché non hanno potuto farlo con lui. È una gratitudine che commuove. E ci dice che la sua vita ha generato luce. Una luce che, in modi diversi, continua”.

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