Di M. Chiara Biagioni

(da Kyiv) Mentre il mondo della politica si spartisce le ricchezze minerarie di questo Paese, la guerra in Ucraina va avanti. Fa freddo. Le file al controllo doganale al confine con l’Ucraina sono lunghissime e il silenzio della gente sovrasta i venti di guerra. È rimasto tutto uguale. Per le persone non è cambiato nulla. Tutto è esattamente come tre anni fa, come sempre.

Siamo a Przemyśl, al confine tra Polonia e Ucraina. Le temperature sono scese allo zero. Piove. In fila ci sono tutte donne con bambini piccoli e anziani. Le loro storie sono diverse: c’è chi torna a casa dopo essere andato a trovare il fidanzato in Francia e chi stringe al petto un bimbo di 9 mesi per tutta la notte, tornando dalla Cechia per farlo conoscere alla famiglia. L’attesa può durare anche un’ora. Solo chi ha un passaporto Ue può saltare i tempi. Non è giusto. Perché fa freddo. E sotto quella gelida pioggerellina c’è una domanda che torna all’infinito. Quelle giovani donne, quei bambini e quegli anziani non dovrebbero stare lì. Dovrebbero stare nelle loro case, al caldo, a fare i compiti, guardare la Tv giocare, preparare la cena.

La guerra è così: scombina tutto, rende tutto estremamente difficile.

Le cuccette del treno che porta a Kiev sono calde: due comodi letti a castello, lenzuola, coperte e asciugamani. Chi lo desidera può chiedere un tè. Fuori, gli allarmi suonano. Le app ti tengono informato, come sveglie infauste che non permettono di credere che vada tutto bene. Anzi, non va bene per niente.

Ci si prepara per la notte e intanto si fa amicizia. Ci si presenta, ci si racconta da dove si viene. Le donne ucraine fanno fatica ad aprirsi all’inizio, sono riservate. Ma quando viene posta loro una domanda, rispondono con precisione. E questa notte non si può non parlare dell’incontro tra il presidente Trump e Zelensky. Olga ha 26 anni ed è di Kiev. “E tu cosa hai provato quando hai visto quelle immagini?” chiede per prima. “A me hanno fatto male, ma non mi hanno per nulla sorpresa. Era da aspettarselo che fosse una trappola. Quello che mi ha colpito di più è che Trump non sa nulla di chi siamo, della nostra storia e soprattutto di quello che stiamo vivendo qui. Ed è stato offensivo, non solo nei confronti del nostro Presidente, ma di tutto il popolo ucraino”. Come vedi il futuro ora? “Più incerto di prima” risponde categorica. E alla domanda se tornerebbe a votare per Zelensky, dice: “Non ci sono motivi per non farlo”.

Tetyana, invece, vive in Italia. È ucraina, del Donetsk. Nel 2014 è fuggita con la madre perché la sua città era stata bombardata.

“Mia madre è fuggita con l’idea che sarebbe tornata a casa dopo una settimana. Sono passati mesi e anni. Non siamo più tornate indietro”. Tetyana accompagna un gruppetto di italiani a Kiev e poi a Kharkiv. Sono del Mean, il Movimento europeo per la nonviolenza. Sono qui per preparare un Giubileo a fine agosto con l’idea di viverlo per la pace, non a parole, ma a fianco di una popolazione ferita dalla guerra. “Trump?” dice Tetyana. “È l’incarnazione del male di questi tempi. Si è mostrato per quello che è. E così facendo ha scosso le coscienze. La cosa che più temiamo è che questa guerra entri in una fase stagnante. O ci uniamo tutti per trovare insieme una pace giusta e duratura, o questa guerra è destinata a durare per tanto, troppo tempo”. “Siamo tutte donne profughe” aggiunge. “Lo sono state anche le nostre madri e le nostre nonne dopo la Seconda guerra mondiale. Anche allora mancavano gli uomini: erano stati tutti ammazzati. Questo Paese è stato salvato dalle donne. Sarà così anche adesso”.

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