DIOCESI – Lectio delle Sorelle Clarisse del Monastero Santa Speranza di San Benedetto del Tronto.

«In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga». Sono le parole di Pietro che si trova a casa del centurione Cornelio, parole che ci aiutano a comprendere quello che la pagina degli Atti degli apostoli che, oggi, la liturgia ci propone, ci sta per presentare. 

Proprio in questa casa, la casa di un pagano, avviene una nuova Pentecoste.

Cosa accade?

«…lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola. E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo; li sentivano infatti parlare in altre lingue e glorificare Dio».

Una nuova Pentecoste che ha per protagonisti quelli che la Chiesa nascente, Pietro compreso, pensava fossero esclusi da una salvezza che si riteneva riservata al solo popolo di Israele. E così, quanto avviene in casa del centurione Cornelio, converte Pietro alla logica di Dio chiedendogli di abbandonare schemi e precomprensioni che fino a quel momento gli erano sembrate intoccabili: Dio invade il cuore di chi vuole, anche se pagano.

Giovanni, nella sua prima lettera, lo ribadisce: «Chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio».

Che cosa significa amare, però? Chi è che ama?

Non ogni affetto è amore, nemmeno ogni legame e nemmeno i sacrifici fatti per gli altri fino a dimenticarsi di sé sono necessariamente amore. L’amore si riconosce se ha la stessa forma di quello di Dio che si è manifestato nel Figlio perché, come scrive ancora Giovanni, «noi avessimo la vita per mezzo di lui».

L’amore è dunque riconoscibile dalla vita che porta: tutto ciò che fa vivere l’altro e noi stessi, tutto ciò che nutre, salva, libera, fa crescere l’altro e noi stessi, questo è l’amore, quell’amore che ci dà la gioia piena.

Ci dice ancora Gesù nel Vangelo: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi». Sono le parole, l’esortazione, il comando che il Signore lascia ai suoi discepoli.

Gesù insiste sulla reciprocità dell’amore, ma, al tempo stesso, la sconvolge, mettendo a fondamento dell’amore reciproco, il «come io ho amato voi», cioè la gratuità.

Se ami solo nella misura in cui sei ricambiato, il tuo non è vero amore. E se sei amato solo nella misura in cui dai, non ti senti veramente amato. Soltanto chi comprende questa gratuità originaria dell’amore è in condizione di comprendere Dio e se stesso. L’uomo è fatto per donarsi gratuitamente, totalmente: qui trova la verità di se stesso, qui tocca il suo essere a immagine di Dio.

«Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi».

Amici del Signore, non servi di un padrone: a ricordarci che la fede non è esaurita da un’appartenenza ecclesiale, da una pratica rituale e liturgica, da un impegno per gli altri, ma ha come matrice nascosta, profonda e vitale, la relazione personale con il Signore.

Amicizia con il Signore: non si tratta di cadere in atteggiamenti affettivi e intimistici, ma di prendere sul serio, nella nostra esistenza concreta, la vita in Cristo in cui ci ha immesso il Battesimo e dire, come Paolo, “Cristo vive in me”.

Davanti a questo amore rivolto a ciascuno e che è essere capace di dare vita, cantiamo con il salmista un canto nuovo, e con noi invitiamo a cantare la terra intera. Perché?

Perché «non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi…»; perché «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi…»; perché «…tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda».

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