Valentina Costantini

 

MONTEPRANDONE – Con il suo romanzo d’esordio “Spartiamo” Valentina Costantini, abruzzese di nascita e monteprandonese d’adozione, vince il Premio letterario nazionale Clara Sereni, terza edizione, nella sezione inediti.

La storia è ambientata in un borgo dell’entroterra abruzzese, sotto il Gran Sasso. Quanto c’è di personale in queste pagine?
C’è molto, una parte della mia famiglia. I miei nonni, che abitavano in un borgo dimenticato persino dalla guerra, si ritrovarono d’improvviso davanti a dei soldati inglesi fuggiti dal campo di prigionia di Servigliano. Da poco era stato firmato l’armistizio e l’Abruzzo era improvvisamente diventato terra di feroci scontri. Da lì passava la linea Gustav che collegava l’Adriatico a Roma e i tedeschi, che spadroneggiavano in tutta la regione, erano decisi a farla pagare ai “traditori” italiani e a impedire con ogni mezzo l’avanzata degli Alleati. I miei nonni, insieme agli altri abitanti del borgo, decisero che le vite di “quegl’inglis” andavano protette, videro in loro la speranza di un modo diverso di vivere. Quella decisione difficile mi è stata raccontata da mia nonna e da mio padre, che all’epoca era un bambino. Scrivere questa storia, anche se romanzata, è stato come continuare a tessere il filo di un racconto che non doveva andare perduto.

Tra i temi che possiamo trovare in questo suo romanzo c’è anche quello, di forte attualità, ovvero la società patriarcale. Come lo ha affrontato?
Le donne sono molto importanti in questo romanzo, sono state loro la molla dell’accoglienza, è stata una donna a porgere il pane ai soldati affamati. Eppure le loro voci dovevano essere sottili, compiacenti, non era previsto che potessero prendere iniziativa, non si doveva urtare la suscettibilità degli uomini. In quella società contadina, dove si passava dal controllo del padre a quello del marito, le donne avevano dovuto inventare modi alternativi per far passare le loro idee, con astuzia e finezza contadina avevano imparato ad indirizzare le scelte dei loro uomini. Ma anche se dentro le loro case erano padrone, non c’era uno spazio vero per loro nella società. L’arrivo “degl’inglis” ha giocato un ruolo chiave nella modernizzazione di quel mondo, le donne hanno iniziato a prendere consapevolezza del loro ruolo, di poter essere parte del cambiamento. Nel mio romanzo il patriarcato si inizia a combattere mandando le bambine a scuola, un volano che porta in sé la crescita delle donne e di tutta la società. 

Al centro del romanzo c’è una storia di solidarietà e di condivisione ai tempi della seconda guerra mondiale, valori che dovremmo riscoprire ancora oggi.
Appare chiaro che la solidarietà non è facile. Accogliere i soldati è stato un grande rischio e sacrificio per le famiglie che si sono trovate a spartire il poco con chi non aveva niente. Non è stata la scelta più facile, ma la più giusta. Non solo per il valore della vita di quelle persone e per un credo religioso che permeava fortemente quella realtà, quel gesto di accoglienza ha arricchito anche e soprattutto gli abruzzesi, ha portato diversità, ricchezza di idee, crescita. La solidarietà è complessa, non ce lo si può nascondere, ma solo confrontandoci, comprendendo e accettando le nostre differenze possiamo evolvere.

Edito da “ali&no editrice”, in questo libro racconta una storia accaduta tanto tempo fa, ma che in qualche modo è fortemente contemporanea.

Mi piacerebbe dire che “la guerra è storia”, ma basta aprire un giornale per rendersi conto immediatamente che probabilmente da quella storia non abbiamo imparato abbastanza. Continuiamo a vedere leader politici che con arroganza muscolare minacciano il mondo, fronti che si dividono sempre più nettamente, il dialogo considerato come una debolezza. Dobbiamo essere molto consapevoli di quanto è accaduto, di come è stato relativamente facile far passare come normali aberrazioni giuridiche ed umanitarie. Non è solo storia, dobbiamo lavorare attivamente per costruire dialogo e collaborazione.

Diversi termini che troviamo sono in dialetto abruzzese. Dove si è documentata?

Sono cresciuta con mia nonna, che parlava esclusivamente il dialetto abruzzese. Per me è la lingua del cuore, quella che più di ogni cosa mi riporta all’infanzia. E’ la mia prima lingua. Quando mi spavento, mi arrabbio, devo pensare velocemente, lo faccio in dialetto, solo dopo traduco in italiano. Ho introdotto anche i miei amici marchigiani all’uso di termini abruzzesi intraducibili, così come mi diverto ad ascoltare quello ascolano che è entrato nella mia parlata quotidiana: insieme abbiamo creato una sorta di metalinguaggio che ci unisce ancora di più.

Sta già pensando ad un altro progetto letterario?

Una volto iniziato, è difficile smettere. Mi piace molto entrare in contatto con i personaggi, immaginare i loro mondi e i loro pensieri, e scoprire che ho ancora tantissimo da imparare. Sono al lavoro, sperando che anche questa nuova storia veda presto la luce.

 

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