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Intervista al Vescovo Carlo Bresciani: il Clero, le sfide della Chiesa, i punti di forza della nostra Diocesi

DIOCESI – Ricorre oggi il decimo anniversario dell’ordinazione episcopale di Mons. Carlo Bresciani, Vescovo della Diocesi di San Benedetto del Tronto – Ripatransone – Montalto, avvenuta l’11 gennaio 2014 presso la Cattedrale di Brescia. Per festeggiare insieme siamo tutti invitati a partecipare stasera, 11 gennaio, alla Celebrazione Eucaristica che si terrà, alle ore 19:30, presso la Cattedrale Santa Maria della Marina in San Benedetto del Tronto.

Abbiamo approfittato di questo importante anniversario per intervistare il nostro Vescovo Carlo.

Eccellenza, è trascorso un decennio dalla sua ordinazione. Come ha vissuto questi dieci anni?
Sono stati dieci anni molto belli e anche veloci e – si sa –, quando le cose passano in fretta, vuol dire che le si vivono bene! Ho cercato di accompagnare la comunità nella sua vita di fede, partendo da un situazione di completa non conoscenza della Diocesi, in quanto non l’avevo mai visitata né mai avevo visto la Cattedrale, quindi fidandomi soltanto del Signore. Mi sono messo in cammino con la comunità lungo il sentiero che stava percorrendo. Ricordo che all’inizio del mio mandato pastorale dissi che, lungo la strada della vita, quello che è importante è saper valorizzare il positivo che c’è in ogni cosa, senza soffermarsi a guardare quello che manca, bensì valorizzando quello che di buono e bello c’è. Devo dire che di positivo ho trovato veramente tanto in questi anni: la nostra è una Chiesa che avanza, certamente con le difficoltà contingenti a cui la vita chiama, ma che riesce anche ad affrontare le sfide che si trova di fronte, percorrendo un cammino sincero, vero.

In questi anni ha portato avanti la visita pastorale, incontrando tutte le varie comunità. Quali sono i punti di forza della nostra Diocesi?
Ho atteso un po’ prima di fare la visita pastorale nelle varie comunità, perché volevo conoscere meglio le molteplici realtà, così da vivere la mia visita con maggior profitto. E devo dire che, sebbene molte persone e situazioni fossero già di mia conoscenza, visto che mi reco in ogni parrocchia più volte all’anno, la visita pastorale è stata per certi aspetti una sorpresa, non solo per l’incontro con i sacerdoti, ma soprattutto per l’incontro con le realtà locali.
Ho gustato veramente la ricchezza del nostro territorio! E non parlo solo della ricchezza sociale ed economica, ma anche di quella spirituale, fatta di grandi tradizioni che a volte hanno bisogno di essere riscoperte o vissute in maniera più profonda, ma che hanno significato e continuano a significare tanto per le comunità. Una ricchezza spirituale fatta anche di una fede semplice, che raggiunge tante persone, anche quelle che magari non vediamo spesso in chiesa, ma che costituiscono un tessuto umano ispirato a tanti valori che sono riconducibili a radici cristiane ben salde.
Negli anni passati la pandemia è stata una grande prova per tutti e anche per la Chiesa. Dovendo chiudere i nostri edifici sacri e sospendere le abituali attività, senza poter celebrare con l’assemblea né potersi incontrare, ovviamente abbiamo sofferto. Ma, come dicevo prima, saper cogliere il positivo in ogni cosa, fa sì che anche la morte diventi vita! E anche in questa circostanza abbiamo potuto cogliere qualcosa di positivo: il Covid ci ha costretto a riflettere sulla fragilità della nostra vita e su cosa sia veramente essenziale. La fragilità sociale, sanitaria ed economica di fronte alla quale ci siamo trovati impreparati, ci ha obbligato a ritrovare una solidarietà, di  cui la nostra Caritas Diocesana e le tante Caritas parrocchiali hanno fatto sicuramente esperienza. Ma oltre alla riscoperta del volontariato, penso anche alla riscoperta della fede. Stare chiusi in casa è stata una prova molto forte, ma, avendo più tempo a disposizione e non vivendo la frenesia degli impegni quotidiani a cui eravamo abituati, ci siamo resi conto che la fede, che si esprime nelle pratiche concrete dell’ascolto e della carità, ha bisogno anche di momenti di calma e di interiorità, che nel tempo avevamo lasciato e che  abbiamo avuto l’opportunità di ritrovare. Infine, seppur nella prova, abbiamo potuto vivere i legami familiari in maniera più intensa e profonda, sia tra moglie e marito sia tra genitori e figli.

Il territorio della nostra Diocesi si sviluppa su tre province, Ascoli Piceno, Fermo e Teramo,  che appartengono a due regioni diverse, le Marche e l’Abruzzo. Che pensiero unitario vuole rivolgere alle varie comunità, pur nella loro diversità?
Al di là delle province e delle regioni, io direi che la nostra Diocesi abbraccia tre fasce territoriali: quella costiera, quella collinare e quella montana. Questi tre differenti ambiti geografici determinano differenze anche a livello sociale e spirituale: la geografia dei territori infatti influisce su come la fede possa essere vissuta nei diversi contesti. Se sulla costa basta spostarsi di poche centinaia di metri per trovare un’altra parrocchia o una chiesa, in montagna le distanze sono notevoli.
Certamente la vivacità della costa offre molte più possibilità ed è più fortemente secolarizzata, sia per l’intensità del turismo e delle attività economiche, sia per la densità di popolazione e per l’anonimato che ne consegue. Quasi 100 mila fedeli della nostra Diocesi abitano sulla costa, quindi è più facile l’anonimato delle città e dei palazzi, ma c’è anche una situazione di disuguaglianze molto più marcate: accanto ad una certa ricchezza di fondo, c’è anche una sempre maggiore povertà che per certi aspetti preoccupa.
La collina e la montagna, invece, godendo di più spazi territoriali ed essendo anche più lontane, hanno mantenuto di più le tradizioni e riescono in qualche maniera a combattere alcune forme di povertà, che pur ci sono. Soffrono, però, di altre problematiche: essendo piccole comunità, di 200, 300, 500 abitanti, sono comunità disperse, in cui probabilmente in futuro non riusciremo a garantire la presenza di un sacerdote e quindi a tenere vive, con la stessa frequenza di adesso, la vita di formazione e le celebrazioni liturgiche. Per quanto queste comunità desiderino moltissimo la presenza di un sacerdote, è prevedibile che non sarà possibile. Da un certo punto di vista, però, esiste una sempre maggiore omologazione sociale, grazie ai social network, che fanno giungere ovunque le stesse informazioni e rendono anche più conformi tra loro le mentalità. Certamente c’è il problema dello spopolamento delle aree interne, cosa che come Diocesi ci preoccupa parecchio. I vari eventi sismici che abbiamo vissuto negli ultimi anni ha dato una forte spinta a questo fenomeno, in quanto la costa è più sicura, più fornita di servizi e soprattutto più provvista di vie di comunicazione. Lo sviluppo che abbiamo necessita di velocità nelle comunicazioni e negli spostamenti che purtroppo nell’entroterra non viene garantita, un po’ in quanto mancano le infrastrutture e un po’ perché la configurazione geografica ostacola la loro realizzazione. Queste difficoltà dei territori interni richiedono una maggiore solidarietà: occorre che si lavori di più in rete, sia dal punto di vista civile che ecclesiale. Altrimenti le zone interne soffriranno sempre di più e sarà difficile resistere al fenomeno dello spopolamento, con danni economici, sociali e anche ecclesiali.

Noi abbiamo un clero mediamente abbastanza giovane, rispetto alla media nazionale e anche  regionale: in alcune Diocesi delle Marche l’età media dei sacerdoti è infatti di 70 anni, mentre nella nostra è di circa 58 anni. Lei come trova il clero della nostra Diocesi?
Come si possono superare le difficoltà del momento storico che stiamo vivendo?
Il nostro clero non è differente da quello di altre Diocesi. Viviamo tutti in questo contesto storico, quindi il clero tutto – anche il nostro –, sebbene animato dalla fede e dal Vangelo, è cresciuto e vive in questa cultura e non può non risentire del contesto generale che ha intorno. Papa Francesco più volte ha ribadito che siamo nel mezzo di un cambiamento d’epoca che crea difficoltà sia al clero che ai fedeli, perché richiede un cambiamento di mentalità e di approccio da parte di tutti. Tutti ci rendiamo conto del fatto che questo cambiamento sia necessario, ma non comprendiamo ancora bene come operare in esso. C’è una resistenza che non viene da cattiva volontà, ma dal non comprendere ancora pienamente la strada da intraprendere. Questa resistenza la vedo sia nel clero che nei laici e per certi aspetti non meraviglia. Certamente il futuro richiede una corresponsabilità diversa tra clero e fedeli, quindi la scoperta di una Chiesa diversa nella sua forma: il Vangelo sarà sempre lo stesso, Gesù Cristo sarà sempre lo stesso, ma il modo di vivere il nostro essere Chiesa sarà diverso, sia per la mentalità, per la secolarizzazione e non soltanto perché il numero dei preti sarà minore. Sono convinto che ne verrà fuori una Chiesa più autentica. Solo che al momento viviamo le difficoltà del cambiamento: è come un parto, che certamente è doloroso, ma generativo. Accanto alle fatiche del parto, siamo chiamati a vivere anche la gioia della nascita.
Per quanto riguarda dunque la nostra Diocesi, avere un clero giovane è una grazia, perché è motivo di grande speranza, e ringraziamo il Signore per questo, ma dobbiamo anche pensare che la giovane età dei nostri sacerdoti non ci mette al riparo dalle difficoltà del momento storico contingente. Il nostro clero più anziano è molto generoso, dedito, pronto a prestarsi ove possibile, non si ritrae. I giovani sono certamente più entusiasti, ma bisogna saper mettere insieme il vecchio e il nuovo, senza buttare il vecchio. Il Vangelo ci dice di saper prendere il positivo dell’antico e del nuovo: è questo il discernimento sul quale dobbiamo cercare di camminare.
In ogni caso, al di là degli ostacoli che si trova ad affrontare, la Chiesa sta vivendo un momento molto positivo. Questo non significa che io sia irrealista o non veda le fatiche di questi cambiamenti o non mi accorga della diminuzione del numero dei fedeli durante le Messe; però sono convinto – nel senso forte della fede – che, attraverso la prova, stiamo preparando la nascita di ciò che Dio sta pensando per noi. E il Signore sta accompagnando questo cammino, è presente in questa Chiesa e, anche se non le toglie i dolori del parto, la sta ispirando nel cammino che deve affrontare.

Quali sfide attendono la Chiesa?
Sono sfide potenti, ma anche entusiasmanti. Dobbiamo recuperare l’entusiasmo degli Apostoli che, pur avendo davanti una missione avvincente – “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a tutte le creature” (Mc 16,15), avevano tuttavia l’entusiasmo della fede. A volte noi cristiani ci fermiamo un po’ troppo sulla nostra stanchezza. Siamo chiamati invece a vivere una realtà di Chiesa in cui tutti i Battezzati si sentano veramente Chiesa. La Chiesa non è costituita soltanto dai Preti, dai Vescovi o dal Papa, bensì da tutti i Battezzati. Salvando naturalmente la presidenza del Parroco, del Vescovo e del Papa, ogni comunità ecclesiale – parrocchiale, diocesana, universale – è chiamata a scoprire quel volto bello della Chiesa che insieme cammina nella fede.
Dal punto di vista sociale, mi preoccupa molto la crescente disuguaglianza che lascia stupiti e che potrebbe creare delle serie difficoltà in futuro. Quando leggo che alcune persone tra quelle individuate come le più ricche del mondo, in un anno hanno aumentano il loro patrimonio personale di 5/10 miliardi di euro, e anche più, e mi confronto con la realtà della Caritas e dei numerosi fedeli che incontro, non posso non pensare che queste disuguaglianze non sono giuste e potranno creare a livello sociale dei conflitti. Pur non avendo nulla contro la ricchezza, non è possibile pensare ad un futuro in cui ci sia un accumulo enorme di patrimonio in pochissime mani e una grande povertà per la maggior parte della popolazione. Quando come Chiesa parliamo di giustizia, dobbiamo pensare che anche le migrazioni dei popoli hanno a che fare con questa ingiusta sperequazione economica e dobbiamo impegnarci affinché si crei maggior uguaglianza e una più equa distribuzione della ricchezza. Queste disuguaglianze devono interrogare il cuore di tutti noi su cosa significhi essere davvero tutti fratelli.

In conclusione le chiediamo di ricordare un momento particolarmente bello che ha vissuto in questi anni e di fare un augurio ai fedeli della Diocesi.
Ci sono stati numerosi momenti vissuti nella gioia e nella pienezza del cuore. Difficile fare delle scelte, perché significa escluderne altre altrettanto belle. Ricordo in particolare l’apertura della Porta Santa nell’Anno Santo della Misericordia, che mi ha emozionato molto, in quanto la risposta dei fedeli è stata molto forte. Ricordo poi con molto piacere l’incontro con le persone: le celebrazioni con i sacerdoti e il clero, gli incontri di formazione, le realtà incontrate durante la visita pastorale che mi ha fatto toccare con mano la vitalità della Chiesa.
Riprendendo una frase del teologo Von Balthasar che costituisce anche il titolo di una sua opera e che a me piace particolarmente, credo che nella fede, come Chiesa, siamo chiamati a vivere il tutto nel frammento. Così è stato per me in ogni momento di questi dieci anni. Se ci fermiamo al frammento, finiamo nello scoraggiamento, nella stanchezza e nella delusione. Se invece sappiamo cogliere il tutto che c’è nel frammento, ritroviamo l’entusiasmo, la passione e la gioia. Così accade nell’Eucaristia, così accade nella vita! Se noi nell’Eucaristia vediamo solo un frammento di pane, non viviamo granché; ma, se al contrario, sappiamo cogliere il tutto, allora riceviamo entusiasmo. Non potendo mai vivere completamente il tutto, siamo chiamati a vivere sempre nel frammento il tutto. Questo siamo chiamati a fare oggi in ogni momento della vita.

Carletta Di Blasio: