SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Si è svolta ieri, 13 ottobre, alle ore 17:00, presso piazza Bice Piacentini, in San Benedetto del Tronto, una celebrazione eucaristica in onore di San Benedetto Martire, patrono della città. La Santa Messa, presieduta dal vescovo della Diocesi di San Benedetto del Tronto – Ripatransone – Montalto, Mons. Carlo Bresciani, è stata concelebrata da numerosi sacerdoti della città: don Guido Coccia, parroco della parrocchia ospitante; don Patrizio Spina, vicario generale; don Romualdo Scarponi, don Gianni Capriotti, padre Mario Amodeo, padre Massimo Massimi. Presenti anche don Pierluigi Bartolomei della parrocchia Madonna della Speranza di Grottammare, che quest’anno ha curato la riflessione biblica durante il triduo in onore del Santo patrono, e i diaconi Emanuele Imbrescia e Walter Gandolfi. Molte le autorità civili e militari intervenute, che hanno partecipato sia alla Messa sia alla processione che l’ha preceduta: tra di esse anche il primo cittadino Antonio Spazzafumo.

Queste le parole del vescovo Bresciani durante l’omelia: “Cosa può significare per noi oggi la festa del nostro santo patrono? Festeggiamo un martire cristiano vissuto quasi due millenni fa e lo festeggiamo come patrono della nostra città, quindi come colui al quale dovremmo ispirare la nostra vita, non solo le nostre parole, ma il nostro modo di vivere e i valori dai quali dovremmo lasciarci guidare, non solo come comunità ecclesiale, ma anche come comunità civile. Se così non fosse rischieremmo di adempiere solo a una tradizione formale, a celebrazioni tradizionali con poco o nessun peso sulla nostra vita personale e sociale, oltre che ecclesiale.
Nel Vangelo Gesù ci ha detto che ci sono alcune cose che dobbiamo veramente temere per la nostra vita. Le sue parole potrebbero sembraci troppo forti o, forse per qualcuno, anche politicamente poco corrette, avvertimenti cioè che potevano andare bene solo nel passato, ma che sarebbero ampiamente superati nei tempi moderni. Gesù ci dice, infatti, chi e che cosa dobbiamo temere. Ripeto le sue parole: ‘Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo e dopo questo non possono fare più nulla… temete piuttosto colui che, dopo aver ucciso, ha il potere di gettare nella Geenna’ che significa: ‘ha il potere di far perdere l’anima’ come c’è nel testo di Matteo (Mt 10, 28).
Questo è quanto ha fatto la madre di cui ci ha parlato il libro dei Maccabei; è quanto ha fatto il nostro patrono, San Benedetto, obbediente alla parola del Signore. Non ha avuto paura di perdere il corpo con l’uccisione ingiusta cui fu sottoposto, ma ha avuto paura di perdere l’anima davanti a Dio, cui ognuno di noi dovrà rendere conto della propria vita. Non è stato un ipocrita, cioè non è ricorso a false e suadenti parole, la sua fede non è stata solo di pie parole, vuote di vita. Come cristiano non ha nascosto la sua identità, non si è rifugiato nell’incoerenza per paura di rimetterci qualcosa, in questo caso addirittura la vita. È stato un uomo vero davanti agli uomini e, cosa più importante, davanti a Dio. È stato un uomo forte, più nell’animo che nel corpo; spirito forte nel non rinnegare i valori cristiani che ispiravano la sua vita, neppure di fronte alla minaccia della morte”.
“Partendo da ciò – ha proseguito Mons. Bresciani -, noi oggi, celebrando la festa del santo patrono della nostra città, possiamo chiederci: che cosa ha da dire egli oggi per la vita della nostra città? Di che cosa ha bisogno veramente una città? Io rispondo: di autenticità dei valori che la guidino e la ispirino. Non illudiamoci: una città, come d’altra parte ogni persona, non vive solo dei beni materiali e della ricchezza economica, essi fanno vivere il corpo: sono necessari, ma, da soli, sono inevitabilmente divisivi, in quanto contrappongono tra ciò che è ‘mio’ e ciò che è ‘tuo’, spingendo ognuno ad aggrapparsi esclusivamente a ciò che è ‘mio’. Da soli non sono in grado di dare un’anima alla città, anzi gliela fanno perdere, perché viene meno la capacità di condividere, senza la quale non c’è solidarietà, non c’è comunità che possa vivere.
La ricchezza più autentica, che una persona e una città possiedono, è l’autenticità dei valori di solidarietà che animano e costruiscono la convivenza. Non ogni concezione della libertà costruisce la convivenza e la solidarietà di una città. C’è una falsa idea di libertà che può insinuarsi subdolamente nella persona e nelle società mascherandosi di autenticità, ma che nasconde solo l’egoismo e che nel tempo corrode e fa decadere anche le città e le nazioni più floride.
Non possiamo pensare che la nostra città sia esente da queste tentazioni: saremmo degli illusi. Il santo nostro patrono ci invita a vigilare e, come ci ha detto Gesù nel Vangelo, a fuggire ogni forma di ipocrisia fatta di parole, che nascondono nient’altro che una falsità di vita, come era la vita di quei farisei che Gesù rimbrotta nel Vangelo. Non basta proclamarsi cristiani, se poi non segue almeno uno sforzo sincero per una coerenza di vita, anche se significasse, per esempio, rinunciare a guadagni poco chiari ed esercitare la giustizia, anche economica, verso tutti.
Siamo chiamati a non rinnegare Dio davanti agli uomini, se non vogliamo essere rinnegati da Dio Padre, ci ha detto Gesù nel Vangelo. Non si tratta soltanto di non rinnegarlo a parole, ma di non rinnegarlo con le scelte concrete della nostra vita. Il massimo dell’ipocrisia è usare Dio per coprire altri interessi che nulla hanno a che fare con la verità di Dio che, come dice l’apostolo, è Amore.
Dio è Amore che non si dimentica di nessuno, neppure di un passero, ci ha detto Gesù nel Vangelo. Gesù è finito in croce proprio perché ha parlato di un Dio, che è amore e in quanto tale, pronto ad accogliere tutti. Non solo ne ha parlato, ma l’ha mostrato con gli atti concreti della sua vita. I farisei del Vangelo parlavano di Dio, ma non volevano saperne, nella loro ipocrisia, di un Dio che amasse anche gli ultimi, ‘gli altri’. Erano farisei che, chiusi nel loro egoismo, difendevano solo se stessi e le proprie comodità e, ipocritamente, usavano il nome di Dio per difenderle. Non volevano essere scomodati dagli ‘altri’ e, quindi, neppure da Dio, da quel vero volto di Dio che Gesù andava rivelando.
Per questo, quando il cristiano imita Gesù, spesso risulta scomodo, lo è soprattutto quando richiama, non solo a parole, ma nei fatti la verità che Dio è amore e chiede conto di ogni ingiustizia verso i suoi figli. Per questo, San Benedetto è risultato scomodo e si è cercato di farlo tacere mettendolo a morte, ma la sua vita continua a parlare e ad essere stimolo per ciascuno di noi. Per questo, molti cristiani ancora oggi nel mondo subiscono la stessa sorte di san Benedetto quando richiamano al vero senso dell’amore e, quindi, della giustizia verso i poveri e gli sfruttati. Per questo, anche oggi da molte parti si cerca di far tacere il cristiano che proclama valori altri rispetto al solo benessere economico o al solo piacere, sessuale o no che sia, e condanna ogni forma di ingiustizia.
Il cristiano o vive la carità e la giustizia o non ha nulla a che vedere con Dio che è Carità/Amore; radicalmente, non ha più nulla da dire e da donare al mondo.
La carità non è fatta solo di parole buone o di buoni sentimenti, è impegno di vita come il nostro patrono, martire appunto, ci ricorda. Viviamo l’amore per Dio quando imitiamo il suo amore per tutti, soprattutto per coloro che sono più fragili nel corpo, come Gesù ha mostrato con tutta la sua vita.
Sta qui il significato civile della festa del nostro patrono: mettere alla base della nostra vita in comune una effettiva solidarietà (che è il nome civile della carità), valore fondante di ogni comunità civile od ecclesiale che sia. La solidarietà vive dell’amore e della dedizione verso ciò che è comune; è attiva capacità di condivisione, così che nessuno venga a mancare del necessario. Può forse vivere di altro una città, se vuole essere unita e godere di una convivenza pacifica? Ci può essere altra anima che dà vita alla città?
Il Vangelo ci ha detto che come città dobbiamo temere di perdere l’anima, che consiste, ripeto, in una vera solidarietà e in una autentica capacità di condivisione. Ciò non è niente altro che il fondamento di ogni vita umana, fondamento di ogni città, è vivere da cristiani“.

“Prendiamo dunque esempio dal nostro santo patrono, San Benedetto Martire – ha concluso il vescovo Bresciani -, e chiediamo a Dio la grazia di mantenere sempre vivo il santo timore di perdere l’anima, evitando di chiuderci in un individualismo egoistico incapace di solidarietà e di condivisione. Con l’individualismo, forse -ma ne dubito fortemente- salviamo il corpo, ma sicuramente perdiamo l’anima della vita e della città, e perdiamo anche il Paradiso”.

Prima della benedizione finale, il parroco don Guido Coccia ha effettuato alcuni ringraziamenti: “Il primo ringraziamento, che mi sento di fare dal profondo del mio cuore, è quello all’Associazione Amici del Paese Alto, che per un decennio ha animato, curato e gestito i festeggiamenti civili in onore del nostro santo patrono con impegno, dedizione ed amore. In secondo luogo voglio ringraziare la Corale di San Benedetto Martire che, dopo la collaborazione dello scorso anno con la Corale di San Pio X, quest’anno ha invitato a festeggiare con noi la Corale della Sacra Famiglia. Pian piano cercheremo di invitare anche le corali delle altre parrocchie della città, per far sentire ai fedeli che questa è la festa di tutti i Sambenedettesi. Il terzo ringraziamento va a don Pierluigi Bartolomei, che ha animato il triduo in preparazione alla festa di oggi. Per lui è stato un tuffo nel passato, visto che le sue origini appartengono a questa parrocchia. Credo sia stato piacevole per la comunità accogliere le sue riflessioni e per lui tornare in questi luoghi molto cari alla sua memoria. Voglio poi rivolgere un ringraziamento a tutte le autorità civili e militari presenti. Ho preparato un piccolo dono per il sindaco Antonio Spazzafumo, che idealmente estendiamo a tutti voi, che lavorate per proteggerci al meglio: si tratta dell’immagine di colui che ci guida, ci sostiene e ci difende in ogni momento, il nostro San Benedetto Martire che custodisce le chiavi della nostra città. Infine il mio ultimo ringraziamento, che faccio anche a nome di tutti i Confratelli, va al nostro vescovo Carlo Bresciani: si tratta anche qui di un’immagine, quella del volto di Cristo in croce, non perché, come Chiesa, vogliamo guardare non il volto sofferente di un uomo morto, bensì un principio di Resurrezione. Chiediamo al Signore – e a lei – di  aiutarci a fare cose nuove”.

Al termine della celebrazione, come da tradizione, il vescovo Bresciani ha consegnato le chiavi della città al sindaco Spazzafumo il quale, a sua volta, le ha affidate idealmente al santo patrono. Terminata la celebrazione, tutte le autorità ed i fedeli si sono recati in processione verso la piazza dell’Orologio per fare, come di consueto, la tradizionale benedizione della città.

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