DIOCESI – Lectio delle Sorelle Clarisse del Monastero Santa Speranza di San Benedetto del Tronto.

Spesso ci troviamo a pensare che il Signore ci chieda cose troppo grandi, impossibili da realizzare, ci chieda gesti, opere al di sopra delle nostre potenzialità e possibilità.
Prendiamo, ad esempio, il Vangelo di questa domenica.
Dice Gesù ai suoi apostoli, quindi anche a ciascuno di noi: «Chi ama padre o madre più di me non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me non è degno di me». A noi che siamo madri, padri, figli come può il Signore chiedere questo? Amarlo più di un figlio, di una figlia, dei propri genitori?
Ancora Gesù ci chiede di prendere la nostra croce e seguirlo, altrimenti non siamo degni di lui. Ma come si fa ad accettare una croce, addirittura caricarsene e camminare nella vita con questa fatica?
Ancora…ci chiede di perdere la nostra vita…proprio quella vita che, con tanto sacrificio, proviamo a costruirci, attraverso la quale proviamo a realizzarci, con la quale cerchiamo la felicità.
Cerchiamo di capire meglio.
La vita in Dio non è certamente frutto di sottrazioni, di amori che si oppongono e contrastano, di qualcuno da lasciare e qualcun altro da prendere. Ogni essere vivente nasce come persona “appassionata” e quello “strano” spirito religioso che ci spinge a negare le nostre passioni, inaridisce la vita e rende molti di noi cristiani predicatori di cose morte.
Gesù non chiede di rinnegare ma di lasciare che il desiderio di Dio non sia soffocato, spento, diminuito da ostacoli, ripensamenti, legami: questo permette a Dio stesso di far fiorire tutta la nostra umanità, così come avviene per la donna di Sunem, lo leggiamo nella prima lettura.
Questa donna, insieme con il proprio marito, ospita a casa sua il profeta Eliseo ogni volta che questi passa da quelle parti.
La donna, ad un certo punto, chiedendosi cosa possa fare in più per Eliseo, riconosciuto da lei come uomo di Dio e santo, decide con il marito di costruire, nella parte superiore della casa, una piccola stanza, in muratura, arredata con un letto, un tavolo, una sedia, un candeliere così che il profeta, venendo da loro, possa sostare e riposare.
La coppia, ci dice la Scrittura, non ha figli: avrebbero, moglie e marito, potuto chiedere ad Eliseo una grazia, un miracolo, un figlio come ricompensa alla loro ospitalità. Ma non lo fanno, anzi, fanno loro qualcosa in più per il profeta e, quella parte di casa che magari poteva essere destinata ai loro figli, la riservano per Eliseo.
Questa coppia, nella semplicità della sua vita, ci aiuta a dare risposta alle domande che ci portiamo dentro e che ci siamo posti all’inizio di questa breve riflessione.
La donna e suo marito non hanno vissuto nel rimpianto di non poter avere figli ma quella vita, quell’amore che comunque hanno dentro li hanno donati a piene mani. Non hanno tenuto per loro la propria vita, ma l’hanno messa a disposizione totalmente, permettendo ad Eliseo, sì un uomo di Dio ma pur sempre un estraneo, di entrare nell’intimità della loro casa e della loro storia. Hanno accolto, hanno dissetato, hanno sfamato, hanno condiviso.
E’ proprio vero: «Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà».
Allora capiamo cosa significhi prendere la propria croce: la croce non è la disgrazia che Dio ci fa cadere addosso per purificare la nostra vita o la nostra fede, disgrazia che dobbiamo accettare e basta. Portare la croce è la scelta consapevole di donare la nostra vita, ogni giorno, per amore del fratello e nella certezza dell’amore di Dio per noi.
E’ quello che hanno fatto, nella semplicità, la donna di Sunem e suo marito, aprendo la loro vita ad Eliseo e nulla trattenendo!
Eliseo, infatti, alla donna dice: «L’anno prossimo, in questa stessa stagione, tu stringerai un figlio tra le tue braccia». E noi? Crediamo davvero che affidando la nostra vita a Dio, ce la ritroveremo moltiplicata tra le braccia?

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