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Sorelle Clarisse: Il “sacchetto” delle cose più care!

DIOCESI – Lectio delle Sorelle Clarisse del Monastero Santa Speranza di San Benedetto del Tronto.

Ci soffermeremo, oggi, soprattutto sulla prima lettura che la liturgia ci propone.

Essa è tratta dal libro dell’Esodo e ci presenta una delle prime parole di alleanza che Dio rivolge al suo popolo mentre cammina nel deserto: «Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquila e vi ho fatti venire fino a me. Ora, se darete ascolto alla mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli; mia infatti è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa».

Dio dice: è mia tutta la terra, però voi sarete mia proprietà particolare. Qui si usa un termina ebraico molto bello: segullah.

Che cos’è la segullah? Per capirlo ci facciamo aiutare dal re Davide: nel libro delle Cronache, Davide parla di quanto si sia dato da fare per la costruzione del tempio a Gerusalemme. Una costruzione che verrà portata avanti da suo figlio, Salomone, ma per la quale lui ha preparato e donato oro, argento, legni pregiati, marmi preziosi, cioè tutte le riserve a disposizione di un re… ma, oltre questo, Davide dona anche la sua segullah d’oro e d’argento, la sua piccola proprietà personale; non le cose che lui ha in quanto re d’Israele, ma il suo sacchettino con le sue piccole cose d’oro che sono i suoi ricordi.

Uno ha tutto, ma il vero tesoro è la sua segullah perché è quel tesoro che fa parte della sua storia, lì c’è condensato l’affetto di quelli che gli vogliono bene, lì c’è l’amore.

Quando Israele entra nell’alleanza con Dio, quando noi entriamo nell’alleanza con il Signore, noi diventiamo la sua segullah, la sua proprietà particolare, quel piccolo tesoro che gli fa dire…sì, è mia tutta la terra, ma in te c’è tutto il mio cuore, il mio affetto, la mia storia, la mia gioia.

Nel Vangelo leggiamo che «Gesù, vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore». Dio si commuove quando ci guarda e non può dimenticarci, noi che siamo la sua segullah, la sua proprietà intima. Anche quando la nostra infedeltà sembra oscurare la trasparenza, lui sembra dirci con tenerezza: sei custodito nel sacchetto delle cose più care!

E’ un amore viscerale, ostinato, che quasi non vede ragione, prescindendo da ogni valutazione di merito. Proprio in virtù di questo amore profondo, Gesù vuole togliere ogni uomo dalla dispersione e dalla solitudine; e per questo chiama a sé i dodici. Li chiama per nome a significare la loro esistenza concreta, uomini del loro tempo, non uomini speciali, uomini del tutto diversi tra loro: pescatori abituati alla concretezza come Pietro, intellettuali, tradizionalisti come Giacomo, pubblicani, terroristi come Simone del gruppo degli Zeloti. C’è l’intero Israele in questo gruppo, l’intera umanità nella sua vivace diversità.

E’ il paradosso di Dio: all’umanità ferita e fragile che necessita di una guida, alla sua proprietà particolare, Gesù propone un pezzo di umanità, altrettanto fragile e ferita ma trasfigurata dal suo Amore!

Allora, certi di questo amore, rivolgiamoci a lui con le stesse parole del salmista: «Riconoscete che solo il Signore è Dio: egli ci ha fatti e noi siamo suoi, suo popolo e gregge del suo pascolo. Buono è il Signore, il suo amore è per sempre, la sua fedeltà di generazione in generazione».

Redazione: