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Pescatori Sambenedettesi, intervista ad Andrea Marchegiani: “Il mare: una storia d’amore che dura da tutta una vita”

 

SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Proseguiamo la rubrica di interviste ai pescatori della nostra Diocesi attraverso i quali vogliamo conoscere meglio la Marineria di San Benedetto del Tronto, le sua ricca storia, le difficoltà contingenti e i sogni per un futuro possibile. È la volta oggi di Andrea Marchegiani, Sambenedettese doc da generazioni, 51 anni, sposato con Stefania, da cui ha avuto tre figli: Letizia, Emanuele e Gianmarco, rispettivamente di 17, 15 e 13 anni.

Quando e come ha iniziato questo lavoro?
Ho iniziato questo lavoro perché mio padre aveva un’impresa di pesca abbastanza importante e quindi andare in mare, per me, è stato un approdo naturale per continuare una tradizione di famiglia. Così, terminate le Scuole Medie, ho intrapreso il corso di studi presso l’Ipsia per conseguire il Diploma di Meccanico Navale. Dopo i tre anni di Scuole Superiori, avrei voluto proseguire gli studi con il corso T.I.M. (Tecnico Industria Meccanico), ma purtroppo non essendo stato raggiunto un numero sufficiente di iscritti, la sezione non è mai salpata. L’alternativa sarebbe stata quella di andare ad Ancona, ma ho lasciato perdere, anche perché avevo la possibilità di intraprendere da subito la carriera in mare. Mio padre Giulio, infatti, all’epoca aveva dei pescherecci e mi sono imbarcato su uno di quelli oceanici alla sola età di 16 anni. Già un anno prima, durante le vacanze estive tra il 2° ed il 3° anno, avevo fatto tre mesi a bordo di un peschereccio qui nell’Adriatico, presso la Fossa di Pomo a ridosso delle coste croate. Ad ottobre del 1988 quindi sono partito per Dakar per quello che considero il mio primo vero viaggio, anche se di fatto era il secondo. È stata un’esperienza eccezionale: i primi quaranta giorni siamo stati a Las Palmas per eseguire alcuni lavori di manutenzione del peschereccio, poi siamo partiti ed abbiamo fatto tre bordate in mare, ovvero tre campagne di pesca, ognuna delle quali è durata 50/55 giorni, poi 5 giorni di pausa per scaricare il pesce a terra e poi di nuovo in mare. Questo primo viaggio lontano da casa quindi è durato 7 mesi. Mia madre, che veniva da una cultura marinara, ha accettato questa situazione, anche perché ero il quarto figlio e tutti prima di me avevano già intrapreso un lavoro attinente al mare. Preciso che all’epoca mio padre gestiva tutto dagli uffici e quindi io sono partito con numerosi colleghi, ma non familiari. A bordo eravamo circa 25 persone: il comandante, ovvero colui a cui fa capo di ogni decisione; il primo ufficiale di coperta; il timoniere; il direttore di macchina, che comanda la sala macchine; il primo ufficiale di macchina, che si alterna al direttore nella conduzione degli impianti di bordo; l’elettricista, che risolve ogni esigenza di tipo elettrico; quattro ingrassatori, ovvero i ragazzi che manovrano i macchinari; due cuochi, uno per gli Italiani e uno per i Senegalesi (una cucina fatta di spaghetti e una di cus cus!); un cameriere; un ispettore, ovvero un rappresentante del paese in cui stavamo pescando che controllava il rispetto delle norme del paese ospitante; il retiere, che aggiustava le reti; infine il resto dei marinai. All’epoca l’ambiente in Italia, nell’Adriatico, era molto più familiare dell’aria che si respirava nell’Atlantico, ma io personalmente mi sono trovato molto meglio giù: ero molto giovane, infatti, e non avevo ancora legami sentimentali che mi facessero sentire la mancanza di casa, perciò ho avuto la possibilità di fare molte esperienze professionali e anche personali. Ho proseguito quindi per circa quattro anni, visitando la Guinea e il Senegal. Ho iniziato come ingrassatore e, dopo poco, mi sono imbarcato come allievo ufficiale di macchina; successivamente sono divenuto primo ufficiale di macchina e poi direttore. La meccanica mi appassionava moltissimo, quindi non ho mai avuto dubbi sul fatto che questo sarebbe stato il mio mestiere.

In questi ultimi decenni il mondo della pesca è cambiato molto. Quali differenze sperimenta lei quotidianamente?
All’epoca per la pesca erano anni d’oro, oltre che per i guadagni anche per tutto il sistema che gestiva il mondo della pesca. Oggi la normativa, invece, è molto stringente e severa: numerosi sono gli adempimenti burocratici che gli armatori e il personale a bordo devono rispettare. Anche a livello meccanico è cambiato molto: le barche, un tempo, erano equipaggiate con motori pesanti e macchine imponenti sia per dimensioni sia per peso, ma di una affidabilità superiore. Oggi, al contrario, le macchine sono tecnologicamente più evolute e di dimensioni più ridotte, ma hanno una durata ed efficienza minore rispetto al passato ed è anche un po’ più complesso fare la loro manutenzione. Oggi poi sono cambiate le tecniche di pesca che hanno avuto un’evoluzione importante negli anni: all’epoca il sistema di pesca maggiormente utilizzato in Atlantico era quello all’americana, che utilizzava le gamberaie, una rete ottimizzata per i gamberi, ma che veniva usata anche per seppie, sogliole, … Oggi invece si usano dei sistemi con reti americane i cui disegni costruttivi sono stati modificati e adattati alle caratteristiche dei nostri fondali, ottimizzando l’attività di pesca e incrementando il quantificativo di pescato. L’unione Europea, però, negli anni, è andata in direzione opposta: per salvaguardare l’ambiente, infatti, ha aumentato la selettività degli attrezzi ed ha imposto delle zone di tutela biologica, in cui non è possibile pescare. Sempre per la stessa ragione sono state ridotte le giornate di pesca. Pertanto, se da un lato la tecnologia e la tecnica hanno fatto dei passi in avanti, le leggi hanno frenato questo tipo di sviluppo. È chiaro che certe norme vanno nella direzione di una maggiore sostenibilità dei nostri mari e di tutte le specie che li popolano, quindi di un’attenta e giusta salvaguardia del Creato; allo stesso tempo, però, in tale situazione, l’aspetto economico ha subito delle conseguenze negative. Attualmente, infatti, un marinaio guadagna intorno ai 1.600/1.700 euro circa, poco più di un operaio semplice, uno stipendio che sale per altre figure professionali fino ad arrivare a 2.500 euro circa per un comandante o un motorista. Entrambi gli importi sono indicativi e possono quindi cambiare in eccesso o in difetto, in quanto tutto l’equipaggio di una barca guadagna in compartecipazione, ovvero prende una percentuale sul guadagno finale: ricavato l’incasso dalla vendita del pescato e decurtato di tutte le spese, il resto viene diviso in parti percentuali che spettano al 50% all’armatore e al 50% all’equipaggio che, a sua volta, lo ripartisce tra le varie figure professionali in base alle loro competenze ed attività.

Quali sono le criticità maggiori del suo lavoro?
Nonostante ci siano stati tempi d’oro per gli armatori, come lo è stato per mio padre, oggi la vita dell’armatore non è affatto rose e fiori. Oggi ogni armatore è carico di problemi! Qualsiasi peschereccio, appena molla gli ormeggi, è già a rischio verbale, perché rispettare tutte le normative europee è molto dura. Diciamo che il guadagno dell’armatore è maggiore rispetto a quello del marinaio imbarcato, ma per lui sono maggiori anche i rischi, un po’ come succede a terra all’imprenditore e all’operaio. Noi, nel 2005, ad esempio, abbiamo vissuto un’esperienza terribile: in Guinea c’è stato un colpo di stato – cosa non nuova per la verità – ma il nuovo governo non ha riconosciuto come valide le licenze di pesca che noi avevamo per operare in quella zona e, nell’arco di una giornata, ben nove pescherecci sono stati sequestrati, con conseguenze disastrose. Gli armatori sono stati sanzionati con multe di importi enormi, circa 250/300 mila dollari ad imbarcazione; il pescato inoltre è stato sequestrato con un’ingente perdita economica per loro e per i marinai. Un tale avvenimento nella vita di un armatore è deleterio e comporta spesso la fine di una società di pesca, perché dopo un colpo del genere non ci si rialza più economicamente e, ammesso che uno ce la faccia, certamente non torna più in quella zona a correre rischi così grandi. All’epoca molte imbarcazioni sono state vendute oppure sono finite all’asta per la vendita coatta. Per quanto mi riguarda, già dal 2000 non mi dedicavo più alla pesca attiva, bensì ero a terra, a Dakar, per gestire l’aspetto tecnico della campagna oceanica, ovvero l’insieme di tutte le pratiche burocratiche e anche di tutte le attività di manutenzione dei pescherecci. Dopo quel fattaccio, che ci ha segnato profondamente, ho ricominciato ad andare in mare qui in Adriatico, una pesca locale che certamente non è così proficua come quella oceanica, ma ci dà comunque il necessario per vivere. Dopo una vita di sacrifici portati avanti da due generazioni, non è stato facile accettare questi accadimenti straordinari, però nel frattempo mi ero sposato ed avevo già famiglia, quindi la mia decisione aveva anche il risvolto positivo di poter stare più vicino alle persone che amavo e che amo. Questo lavoro, infatti, mi ha tenuto molto lontano dai miei cari per lungo tempo: i miei figli sono cresciuti e io non ho vissuto alcuni passaggi importanti della loro crescita. Ora fortunatamente è tutto molto diverso: si passa più tempo a casa che in mare.

Qual è il suo rapporto con la fede?
Sono credente. Mia madre, grande donna di fede, mi educava in casa attraverso la preghiera e l’esempio. Quindi, fin dalla gioventù, sono stato molto attivo nella mia parrocchia, quella di San Filippo Neri, ove facevo il chierichetto con don Ulderico Ceroni. Ho dei bellissimi ricordi: avevamo allestito un cinema con proiezioni settimanali ogni domenica, ci occupavamo della manutenzione dei locali (verniciatura dei locali), a Natale facevamo il presepe. Devo dire che con molti sacerdoti ho vissuto bei momenti di aggregazione: don Gaetano, don Ubaldo e soprattutto don Ulderico e don Gabriele hanno spronato me e i miei coetanei a vivere tante esperienze e a trascorrere una vita attiva nel testimoniare la nostra fede. Sono stati veramente bravi! Poi ci sono stati anni in cui mi sono molto allontanato. Ma voglio precisare che sono stato lontano fisicamente dalla Chiesa, ma non spiritualmente. Noi pescatori, infatti, siamo a contatto con la natura che è il dono più grande che il Signore ci ha fatto. Ogni giorno siamo di fronte alle meraviglie del Creato e già solo questo basta a farci pensare a Dio, a farci sentire la Sua presenza. Ora, grazie anche al contributo pastorale di don Giuseppe, mi sono riavvicinato e ho cominciato a seguire un percorso spirituale: spesso ci aiuta come mediatore con le autorità; altre volte fa anche da moderatore tra noi, partecipando ad alcuni incontri e cercando di riportare la calma e la pace, quando gli animi si scaldano; è spesso presente in mezzo a noi e ci fa vedere le cose da un altro punto di vista. Grazie a lui, la festa della Madonna della Marina e quella di San Francesco, protettore dei marittimi, le vivo in maniera differente rispetto a prima, con un significato diverso, più profondo ed autentico. Don Giuseppe, inoltre, grazie alla campagna di raccolta della plastica effettuata da noi pescatori sambenedettesi, è riuscito anche a farci incontrare Papa Francesco che – come si sa – è molto sensibile alle questioni legate all’ambiente e alla cura del Creato. Il ricordo di quel giorno lo porterò sempre nel mio cuore: è stata un’emozione grande sentire la vicinanza del Santo Padre al mondo della pesca e soprattutto il suo ringraziamento per quello  che noi pescatori stavamo facendo.

Che messaggio vuole dare ai lettori?
Personalmente non sono uno che si butta giù. Per indole non mi scoraggio mai. Questa cosa mi viene da mio padre che ha un attaccamento unico al lavoro. Altre persone, con i problemi che abbiamo avuto noi, avrebbero gettato la spugna; lui, invece, affronta sempre tutto con serenità e, a quasi 90 anni, ogni notte si alza per andare a vendere il pesce. Quindi io ho ripreso da lui questo ottimismo e questa forza nel vedere sempre il lato positivo delle cose. Perciò, a tutti i lettori, mi sento di dire che, qualsiasi cosa accada nella vita, non bisogna mai arrendersi e restare a terra, bensì bisogna rialzarsi e, possibilmente – per usare una metafora legata al mare – salpare verso nuovi orizzonti ed approdare su nuovi lidi, nella consapevolezza di poter tornare sempre ai nostri porti sicuri: la famiglia, la fede, le amicizie.

Carletta Di Blasio: