Campo profughi nei dintorni di Goma – (Foto: organizzazioni società civile italiana)

Patrizia Caiffa

Papa Francesco non potrà andare nell’inferno di Goma, nel Nord Kivu, dove arrivano gran parte degli sfollati in fuga dalla violenza di oltre un centinaio di gruppi armati, ma trascorrerà tre giorni a Kinshasa, capitale della Repubblica democratica del Congo. Dopo la posticipazione del viaggio programmato nel 2021, ora è attesissimo nel Paese, afflitto da un conflitto ai danni della popolazione, soprattutto nell’Est, che dura da 30 anni: ha causato almeno 6 milioni di vittime, 5 milioni e mezzo di sfollati interni, 1 milione di rifugiati all’estero, migliaia di bambini soldato, innumerevoli stupri, violenze, saccheggi. Ma nessuno ne parla. Acquisterà visibilità per pochi giorni durante la visita apostolica che si svolgerà dal 31 gennaio al 3 febbraio (dopo il Papa andrà in Sud Sudan fino al 5 febbraio) e poi, molto probabilmente, i riflettori si spegneranno di nuovo. Per cercare di evitare questo rischio e chiedere la pace 107 organizzazioni e reti della società civile italiana hanno organizzato ieri una conferenza stampa a Roma.

La conferenza stampa a Roma – foto: SIR

Una lettera al Papa. E proprio in questi giorni hanno inviato una lettera privata a Papa Francesco (non è stato diffuso il testo completo)  nella quale vengono spiegate le ragioni delle sofferenze, denunciate le “cause strutturali”  e le responsabilità dell’Occidente, Europa compresa, nell’accaparramento delle risorse naturali tra cui coltan, cobalto, oro, diamanti, petrolio, legno. “La sua venuta è stata lungamente attesa dal popolo congolese, di ogni appartenenza religiosa – è scritto nella lettera -. Perché chi si sente fra i dimenticati della storia, trova un soffio di speranza presso chi gli si fa prossimo. Perché,

attraverso di lei, il mondo potrà alfine guardare alla sofferenza senza fine di questo popolo, soprattutto all’est, e mettere in atto strumenti che sanzionino gli aggressori e scoraggino la guerra”.

 

Campo profughi nei dintorni di Goma – foto: organizzazioni società civile italiana

Le richieste delle 107 organizzazioni. Le 107 organizzazioni – tra cui Libera, Associazione Comunità Papa Giovanni XXII, Stop the war now, Tavola della pace, Cipsi, Caritas diocesane, parrocchie e missionari  –  chiedono che vi sia una smobilitazione e smilitarizzazione della Regione del Nord e Sud Kivu: togliendo terreno al Movimento M23 e agli oltre 100 gruppi ribelli presenti nell’area con la realizzazione di un programma concreto di disarmo, smobilitazione e la reintegrazione dei combattenti nella società civile.

Si chiede all’Unione europea di ripristinare e revisionare il Regolamento (Eu) 2017/821, entrato in vigore il 1 gennaio 2021, estendendolo al cobalto e rendendo concreta l’applicazione della legge sulla tracciabilità dei minerali,

uno strumento concreto per bloccare l’uso di minerali che provengono da aree di conflitto. E di dare seguito a quanto indicato dal Rapporto Onu del Progetto Mapping relativo alle violazioni più gravi dei diritti dell’uomo e del diritto internazionale umanitario commesse tra marzo 1993 e giugno 2003 sul territorio della Repubblica Democratica del Congo, nel quale vengono anche indicati i responsabili. Nel rapporto Onu viene suggerita una roadmap per l’uscita dal conflitto e proposta l’istituzione di un Tribunale penale internazionale, oltre alla creazione di una Commissione verità e riconciliazione. Secondo don Tonio Dell’Olio, presidente della Pro Civitate Christiana di Assisi, “il Papa è oggi la vera scorta mediatica della R.D. Congo”. “Speriamo che l’attenzione non svanisca con la visita – ha sottolineato – perché tutti conosciamo le ragioni per cui lì si muore. Il Congo è condannato dalle sue ricchezze, da chi vuole mettere mano sulle sue risorse. Sappiamo come le terre rare, il sottosuolo, siano oggi importanti per la tecnologia”.

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Un appello a Ong e missionari perché accolgano i bambini soldato è stato lanciato da padre Giovanni Piumatti, missionario fidei donum della diocesi di Pinerolo che ha vissuto 50 anni in due villaggi del Nord Kivu nella Repubblica democratica del Congo, insieme ad una piccola comunità di italiani.  “Per 20 anni avevamo i gruppi armati ribelli che occupavano i due villaggi, nelle loro fila ci sono moltissimi ragazzi anche minorenni – ha raccontato -. Oggi centinaia e migliaia di ragazzi vorrebbero uscirne ma non c’è nessuna struttura di accoglienza che possa accoglierli. Sono fuggiti dai loro villaggi per qualche piccola malefatta e tornarci è difficile”. Il missionario ha chiesto a Ong e missionari – “penso anche ai salesiani che per carisma lavorano con i giovani” – di “prendere con sé 30/40 ragazzi. Sarebbe un primo segnale per la pace e toglierebbe la manovalanza ai gruppi armati”.

Una donna violentata e uccisa a Rutshuru (vicino a Goma) – foto: organizzazioni società civile

L’istituzione di un Tribunale penale internazionale per la R.D. Congo “per rispettare la dignità della nostra umanità”: è la richiesta di Pierre Kabeza, ex sindacalista e difensore dei diritti dei bambini nel suo Paese e rifugiato in Italia, come già ribadito nel Rapporto Mapping, nel quale vengono descritti 617 crimini commessi durante il conflitto. Gli esperti dell’Onu hanno consultato più di 1.500 documenti, interrogato più di 1.280 testimoni e 200 rappresentanti di Ong e concluso che “gli autori dei crimini sono i gruppi ribelli congolesi e stranieri, le forze armate congolesi, ugandesi, burundesi, angolane, ruandesi, ciadiane e dello Zimbabwe” ma “tanti autori intellettuali di questi crimini sono diventati capi e quindi intoccabili”. Una guerra “legata al saccheggio dei minerali è un servizio alle multinazionali delle grandi potenze – ha detto – per questo i grandi del mondo hanno chiuso gli occhi.

Mantenere il Congo nel caos è un vero business internazionale”.

Kabeza ha ricordato che Denis Mukwege, il medico premio Nobel per la pace, si sta mobilitando per la giustizia internazionale sui crimini in Congo, con il sostegno della Chiesa cattolica congolese, della Chiesa protestante e di tante associazioni e movimenti della gioventù congolesi.

Attacco di due missili contro due aerei da rifornimento FARDC (esercito del Congo) – foto: organizzazioni società civile

“Il Congo è ricco da morire ma i congolesi stanno morendo per le loro ricchezze. Non c’è un Paese più benedetto del Congo ma sembra che queste ricchezze siano diventate una maledizione”, ha affermato John Mpaliza, attivista per i diritti umani, ricordando che la R.D. Congo “è una cassaforte di coltan, cobalto, rame, legno e altre risorse. Potrebbe essere un paradiso terrestre ma per la popolazione è un inferno”. “Il silenzio e l’embargo di notizie su questo conflitto sono la conseguenza diretta dell’ipocrisia e della responsabilità della comunità internazionale nell’accaparramento iniquo delle risorse minerarie del Kivu. Questo silenzio conviene a tutti coloro che hanno interesse in Congo: Usa, Europa, Cina, vicini come il Rwanda e Uganda”. Micheline Mwendike Kamate, scrittrice e attivista del movimento congolese “Lucha”, nata e cresciuta durante il conflitto, ha invece ribadito: “La guerra perde sempre. Io ho scelto la non violenza perché, dopo tanti anni, ci si rende conto che la guerra consuma tutte le rivendicazioni iniziali e rimane solo tanta sofferenza, da tutte le parti”.

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