Silvia Rossetti

L’universo parallelo dell’online continua a mettere a dura prova la comunità educante con episodi sempre più inquietanti. Nei giorni scorsi, in diverse città d’Italia, dal Nord al Sud, dei minori di età compresa fra i 13 e i 16 anni sono stati coinvolti in indagini e denunce per aver inviato e ricevuto materiale pedopornografico su chat e gruppi social. All’interno di queste community sarebbero stati veicolati, inoltre, immagini e stickers “meme” di carattere zoofilo, necrofilo, splatter, ecc., alcuni di essi ritraenti orrende mutilazioni o atti sessuali estremi e altre crudeltà.

Ma perché accade tutto questo? Non è semplice rispondere. Di sicuro il digitale ci trova ancora una volta impreparati, sia come genitori ed educatori che come utenti. L’accesso alle tecnologie è troppo precoce, gli smartphone vengono affidati con leggerezza a bambini, preadolescenti e adolescenti senza interrogarsi adeguatamente sulla potenzialità di questi dispositivi e senza una opportuna mediazione.

Gli esperti ci avvertono che nell’universo digitale il corpo, fisicamente inteso, cioè come strumento di esplorazione, è assente. La sua esclusione dalle relazioni “web-mediate” limita fortemente la risonanza emotiva di determinati gesti o azioni. Inutile, da questo punto di vista, lo sforzo di creare icone o emoticon, che non possono certamente sostituire le emozioni autentiche di fatto mediate dal corpo, come i sentimenti lo sono dalla coscienza.

I media digitali, dunque, dialogano con la mente, sul piano logico, ma non in profondità con le emozioni e la nostra capacità empatica. Quello che di fatto avviene è una sorta di “dissociazione” tra anima e mente ed è questa bipolarità che spesso conduce all’aberrazione. A una certa età, poi, non si è neppure in grado di capire fino in fondo gli effetti di ciò che si scrive e, soprattutto, tra giovani e giovanissimi i media diventano una sorta di trampolino di lancio, direzionato verso il gruppo dei coetanei che si vuole impressionare, o sui quali si desidera affermarsi. La mancanza di empatia e di rispecchiamento nelle emozioni e nei sentimenti altrui generano, inoltre, comportamenti aggressivi e prevaricatori nei confronti di chi viene percepito come più “debole”, o meno spregiudicato nell’utilizzo del mezzo. Ed ecco qui spuntare le minacce, perfino i ricatti, in modalità inedite e sconvolgenti rispetto all’età e al contesto da cui i ragazzi provengono. Non sono loro a parlare, ma il loro “avatar”, il nickname, il personaggio che dovrebbe veicolare il riscatto dalle proprie frustrazioni e dalla propria solitudine.

La solitudine è un altro grande tema nel percorso di crescita dei nostri giovani, soprattutto perché, invece di essere riconosciuto come spazio di riflessione, diventa terreno fertile per il disagio e la devianza. Le relazioni tra pari cercano la strada del sensazionalismo, dello “scandalo”, quando s’innestano sul senso d’inadeguatezza: “non sono adeguato” e quindi “mi travesto” da cinico, da spregiudicato, da “audace”. La comunità attuale offre ancora pochi spazi per affrontare i propri gap interiori, il disagio non solo non viene risolto ma spesso sui social si trasforma in “tendenza”, o “moda”, o “status”, mai in ricerca interiore.

Così diventa uno specchietto mortifero per inconsapevoli allodole in cerca di identità.

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