Foto: Medici senza frontiere

Giovanna Pasqualin Traversa

Mentre non si spegne l’eco della tragica morte di Alessandro, il tredicenne di Gragnano (Napoli) precipitato dal balcone di casa la settimana scorsa, in occasione della Giornata internazionale per la prevenzione del suicidio che ricorre ogni anno il 10 settembre, Telefono Amico Italia diffonde i dati delle segnalazioni relative al suicidio nel 2021, mai così numerose. Quasi 6mila richieste d’aiuto arrivate lo scorso anno all’organizzazione da persone tentate dal pensiero di uccidersi o preoccupate per il possibile suicidio di un proprio caro. Il 55% in più rispetto al 2020, quasi quattro volte tanto rispetto al 2019, cioè prima della pandemia. Ed è allarme giovani: il 28% delle 2.700 richieste arrivate al numero unico 02 2327 2327 o nella chat di WhatsApp (al 324 011 7252) dell’organizzazione, attivi 365 giorni l’anno dalle 10 alle 24, è di ragazzi under 25.

Secondo l’Istat sono 220mila i ragazzi tra i 14 e i 19 anni insoddisfatti della propria vita. Nel mondo, informa l’Unicef, ogni anno, quasi 46mila bambini e adolescenti tra i 10 e i 19 anni si tolgono la vita, circa uno ogni undici minuti. Sempre più ragazzi si sentono stretti nella morsa di un buco nero senza uscita dal quale l’unica liberazione sembra essere la morte. Per questo, in occasione della Giornata odierna, Telefono Amico Italia promuove l’evento di sensibilizzazione “Non parlarne è 1 suicidio” in 16 piazze del Paese. “Il suicidio nei più giovani è un fenomeno di grande impatto, anche perché presenta una fattispecie tutta sua”, spiega al Sir Maurizio Pompili, docente di psichiatria all’Università Sapienza di Roma e direttore del Servizio per la prevenzione del suicidio dell’Azienda ospedaliero-universitaria Sant’Andrea di Roma.

Professore, che cosa c’è dietro questo gesto?
Un dolore insopportabile, uno stato di grande sovvertimento, e quando coinvolge un ragazzo giovane come Alessandro lascia senza parole perché tocca le parti più profonde della coscienza collettiva.

Nessuno si era accorto della sua sofferenza, nemmeno i genitori… 
Forse alcuni segnali premonitori potevano essere identificati, ma è facile dirlo con il senno di poi. Solo a posteriori appaiono infatti in maniera nitida quelli che erano segnali anticipatori, ma che erano stati in qualche modo criptati o sottovalutati.

Quali sono, in generale, le spie d’allarme cui prestare attenzione?
Le verbalizzazioni, frasi come “a che serve vivere”, “non ce la faccio più”; le alterazioni del sonno (sonno disturbato, insonnia o ipersonnia); l’aumento del consumo d’alcol. Ma anche il ritiro di un ragazzo dagli amici e dagli affetti, il cimentarsi in attività rischiose, il fare una sorta di testamento regalando oggetti cari ai quali è molto legato. Ulteriore campanello d’allarme i cambiamenti d’umore: se un ragazzo precedentemente angosciato appare improvvisamente risollevato, come se avesse risolto i suoi problemi dall’oggi al domani, potrebbe aver preso la decisione di suicidarsi per risolvere in modo definitivo il suo problema”.

In presenza di questi segnali che cosa fare?
Tentare di avvicinarsi in maniera molto empatica al ragazzo, non lasciarlo solo nella sua fragilità e portarlo all’attenzione di un operatore della salute mentale. È importante tenere a mente che

chi si toglie la vita non vuole morire.

Vorrebbe vivere, a patto che si riduca il livello di sofferenza che si trova a sperimentare. Riducendo, quindi, questo dolore possiamo aiutarlo a salvarsi. E’ importante però riuscire a intercettare le spie di cui abbiamo parlato e convincere chi è in questa situazione a chiedere aiuto senza vergognarsi o temere di essere giudicato.

Lei sta pensando a genitori, insegnanti, amici?
A tutti, perché

la prevenzione del suicidio è possibile e riguarda tutti.

Il primo passo – la cosiddetta prevenzione primaria – consiste nel cercare di sensibilizzare l’intera popolazione sul fenomeno, fornire a tutti una sorta di “Abc” per poter riconoscere il soggetto a rischio ed agire d’anticipo. Occorre, in altri termini, informare l’opinione pubblica, aiutare familiari e amici a riconoscere i segnali di allarme, sfatare i falsi miti e contrastare lo stigma. Ma per questo servono formazione e sensibilizzazione: nel nostro Paese il suicidio viene invece considerato erroneamente tabù, se ne parla ancora troppo poco.

E bisogna partire dalla scuola, dai ragazzi, insegnare loro a capire chi può avere bisogno di aiuto.

I ragazzi, appunto, ma in questa vicenda nel ruolo di carnefici. Ancora una volta una giovanissima vittima di cyberbullismo, bersaglio di insulti, minacce, istigazione al suicidio sui social…
Nuove tecnologie e smartphone sono stati messi in mano ai ragazzini all’improvviso, senza un’adeguata preparazione, senza “istruzioni per l’uso”. Giovanissimi che vengono “catturati” del cyberspace, dove tutto viene enfatizzato a dismisura, e portano in tasca una bomba senza essere consapevoli delle conseguenze devastanti della sua deflagrazione. L’episodio di Gragnano non è il primo e probabilmente non sarà l’ultimo. Ribadisco che è fondamentale parlare di suicidio, avviare nelle scuole campagne per prevenirlo ma anche per incoraggiare e convincere le vittime di bullismo e cyberbullismo a chiedere aiuto senza vergognarsi.

“Non parlarne è 1 suicidio” è, non a caso, lo slogan dell’evento promosso oggi da Telefono Amico Italia…

Occorre parlarne e mettere in campo una strategia nazionale di prevenzione.

Un primo segnale positivo in questa direzione è stata l’approvazione da parte della Camera dei deputati, lo scorso 14 giugno, di una mozione che riconosce il suicidio “come un serio problema di salute pubblica” impegnando il governo a realizzare questa strategia nazionale con diverse tipologie di intervento. C’è ancora molto da fare, ma intanto è un primo passo.

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