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La Chiesa alla prova

Di Franco Garelli

C’è un’aria di diffusa liberazione nel Paese dai forti vincoli di una pandemia che, per troppo tempo, ha condizionato le nostre vite. Una liberazione che ha avuto il suo clou nel Primo maggio scorso, tornato a essere festeggiato in molte piazze d’Italia, proprio nei giorni in cui sono state abolite le restrizioni anti Covid. E ciò pur sotto la cappa di piombo del dramma bellico che si sta consumando in Ucraina. Tuttavia, accanto alla voglia di voltare pagina e celebrare il ritorno alla normalità, continua nella parte più sensibile del Paese l’esigenza di riflettere sulle conseguenze della pandemia sui più svariati ambiti della società. Si tratta di un discernimento che coinvolge anche la Chiesa e il cattolicesimo italiano, che escono frastornati da un periodo che da un lato ha scompaginato la normale vita delle comunità cristiane (e gli equilibri religiosi sin qui prevalenti) e dall’altro ha innescato varie sfide (dagli esiti incerti) circa il futuro della fede cristiana.

A detta di alcuni commentatori e figure religiose, l’esperienza della pandemia ha reso più evidente il declino della Chiesa e della cultura cattolica nell’Italia di oggi, la loro perdita di attrattività e di rilevanza sociale e spirituale. E ciò sia perché la Chiesa sembra essere stata del tutto marginale nella gestione dell’emergenza sanitaria, a fronte dell’apporto più fecondo e costruttivo offerto da altri attori sociali, quali i medici, gli infermieri, gli uomini di scienza. Sia, soprattutto, perché – a eccezione dell’importante ruolo avuto in tutto il periodo da papa Francesco – si è notata la carenza di figure religiose in grado di aiutare il Paese a riflettere in profondità sul dramma pubblico che si stava vivendo, sulle morti in solitudine e senza funerali, sulle bare accatastate, sul senso di eventi che hanno stravolto la vita umana, civile, ecclesiale.

Al riguardo, qualche teologo ha parlato di una preoccupante evanescenza della dimensione escatologica del cristianesimo. Di qui il lamento per un mondo cattolico che continua a fare “l’infermiere della storia” (con riferimento a una carità sociale ancor viva e operosa pure in questi due anni di pandemia), anche se non pare più in grado di incidere sulle coscienze e di offrire un apporto significativo per il discernimento spirituale nelle diverse situazioni.

Oltre a ciò, l’esperienza della pandemia ci consegna un mondo ecclesiale e cattolico sempre più diviso e frammentato al proprio interno, che sta perdendo il suo collante di fondo. Molte chiese e comunità locali hanno perlopiù subìto gli eventi, senza mostrare una qualche capacità reattiva, coltivando magari l’attesa velleitaria che, nel breve periodo, tutto possa ritornare come prima; mentre altre realtà ecclesiali hanno sperimentato nuove forme di comunicazione religiosa e spirituale pur in un contesto di blocco o di sconvolgimento dell’attività pastorale ordinaria.

In parallelo, l’esperienza della pandemia ha accentuato la distanza culturale e religiosa tra quanti vivono un’appartenenza cattolica nominale o anagrafica rispetto ai soggetti che esprimono un cattolicesimo più impegnato. È proprio l’area grigia della religiosità quella che ha vissuto il tempo della pandemia senza un particolare coinvolgimento religioso; e che nel post-pandemia appare restia a riprendere i contatti con gli ambienti ecclesiali, riducendo ulteriormente la sua presenza ai riti comunitari e la domanda di sacramenti.

Nell’operare un consuntivo dei cambiamenti intervenuti nel periodo, varie Chiese e comunità locali non si limitano, tuttavia, a riflettere sul calo della partecipazione ai riti comunitari, sulla difficoltà a riproporre nel tempo attuale le consuete attività pastorali, sul fatto che le quote giovani siano sempre meno presenti negli ambienti ecclesiali. Ciò in quanto – a detta di molti – la pandemia ha rappresentato per la Chiesa non solo un tempo di crisi, ma anche un “tempo di Grazia, ricco di Presenza e di presenze”; in particolare per le comunità e le parrocchie che l’hanno vissuto non in attesa che finisca, ma come un momento propizio per riflettere sulle cose che contano, anche da un punto di vista cristiano.

In questo quadro, la sospensione o la riduzione delle attività ha permesso alle Chiese locali più sensibili (certo, non a tutte) di dedicare più tempo alla preghiera e alla formazione personale e comunitaria, anche attraverso l’utilizzo delle modalità on line (e coinvolgendo le famiglie nelle loro situazioni di vita); di riscoprire e rafforzare le relazioni sia tra i membri della comunità (tra i preti, i laici e le famiglie assidue), sia con le persone in difficoltà sul territorio; di dare più spazio alle domande di senso che oggi interpellano le coscienze, agli interrogativi sulla presenza/assenza di Dio nei periodi più bui della storia umana, al significato del vivere e del morire, al discernimento dei segni dei tempi attraverso il Vangelo.

In altri termini, il lockdown (con i piani pastorali “saltati”) sembra aver spinto la Chiesa di base a una presenza più essenziale nella società, più orientata all’annuncio e alla testimonianza del Vangelo, meno sbilanciata sul fare e sull’efficienza, più attenta alla relazione e alla collaborazione e fraternità interna.

Qualcuno parla di una conversione spirituale della Chiesa di base, a seguito appunto del lockdown. Altri di una Chiesa che si comprende e prefigura come più leggera, più snella, in quanto la riduzione al minimo delle attività ha avuto un effetto purificante. Per altri ancora, il lockdown ha fatto emergere la fragilità delle comunità parrocchiali, che era già ampiamente visibile anche se perlopiù nascosta dall’attivismo. Una fragilità che solleva la questione centrale del tipo di fede che viene proposta e trasmessa dalle varie comunità, di quale rappresentazione di Dio venga veicolata oggi dalla presenza cristiana; vista la “poca fede” delle persone che prima frequentavano e ora sono disperse, e il grande vuoto dei ragazzi e dei giovani negli ambienti ecclesiali.

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