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Morte assistita: a essere in gioco è una questione antropologica, non medica

Assuntina Morresi

Se l’eutanasia fosse una richiesta di malati terminali di fronte a sofferenze intollerabili, dovrebbe emergere soprattutto fra chi è ricoverato negli hospice, dove tante persone vanno a morire. Ma non è così: è noto che chi è adeguatamente accompagnato fino alla fine dei suoi giorni, come avviene in questi luoghi di cura, non chiede di essere ucciso. D’altra parte i casi giudiziari, che hanno segnato la strada dei “nuovi diritti” in questo ambito, non hanno mai riguardato pazienti con breve aspettativa di vita: nella differenza radicale delle situazioni, erano tutte persone con gravi disabilità, da Terry Schiavo a Fabiano Antoniani passando per Tony Bland, Welby ed Eluana Englaro.

Nel dibattito attuale sull’eutanasia ad essere coinvolti sono due piani distinti che non dobbiamo confondere se vogliamo mettere a fuoco la posta in gioco.

Nel caso dei malati terminali si parla di una condizione clinica che chiede soluzioni in ambito medico, di assistenza e cura. E su questo, cure palliative, terapia del dolore, hospice, supporti assistenziali a domicilio sono risposte efficaci.

Ma le leggi sulla morte assistita di cui si discute fanno perno su un altro livello, non medico. L’obiettivo non è l’eliminazione del dolore fisico ma il diritto di decidere sulla propria vita:a essere in gioco è quindi una questione antropologica, una concezione dell’umano dove l’autodeterminazione è condizione per la propria libertà e la realizzazione di sé.Il pieno controllo sulla propria esistenza, e quindi anche sulla propria morte, ha a che fare con la personale idea di vita e di libertà e non riguarda appena la cura di una malattia, o questioni di etica medica, come ha anche recentemente osservato il filosofo Luca Savarino, nella suo libro “Eutanasia e suicidio assistito – Una prospettiva protestante sul fine vita”.

Un orizzonte valoriale reso ancor più chiaro dai sostenitori del quesito referendario respinto sull’omicidio del consenziente, una fattispecie diversa dall’eutanasia ma che volutamente è stata confusa con essa dai sostenitori del referendum, tanto che lo slogan per la campagna era proprio “Eutanasia legale”. Lo scopo era quello di depenalizzare parzialmente il reato di uccisione su richiesta, a prescindere dalle motivazioni della richiesta di essere uccisi:

ad essere sufficiente era solo il consenso di chi voleva morire.

Il quesito è stato dichiarato inammissibile dalla Consulta, che ha motivato spiegando che con l’abrogazione anche parziale di questo reato “non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili”.La confusione fra “eutanasia” e “omicidio del consenziente” è stata possibile perché la prima ha perso, concettualmente, il riferimento all’aspetto medico, slittando verso quello antropologico:“Nella prospettiva referendaria, ciò che conta è la piena libertà della volontà della persona interessata, indipendentemente dal ‘mezzo’ di cui si serve per realizzare il suo intento. […] Il binario tracciato dal referendum potrà essere soltanto il principio supremo di autodeterminazione dell’individuo, nucleo duro di una cultura liberale finalmente non più compressa da diversi organicismi, religiosi o ideologici”, spiegava Gaetano Silvestri, ex presidente della Corte Costituzionale, in un suo recente intervento a sostegno del referendum poi cancellato dalla Consulta.

E a questa posizione non è possibile rispondere offrendo le cure palliative, che invece si sintonizzano su un bisogno di cura.

Con il rigetto del quesito referendario la Corte Costituzionale ha ribadito un pilastro irrinunciabile della nostra Carta fondativa e della nostra società, laicamente condiviso: da qui può e deve ripartire il dibattito pubblico su questi temi.

*Presidente del Comitato per il No all’omicidio del consenziente

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