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Vescovo Bresciani: “San Giuseppe e il sacerdote”

DIOCESI – Nella mattinata di giovedì 21 maggio tutto il clero diocesano si è ritrovato nella Cattedrale Madonna della Marina per celebrare la Messa Crismale presieduta dal Vescovo Carlo Bresciani. È stata davvero una celebrazione inusuale, anche se per il secondo anno consecutivo, sia per il tempo – a ridosso della Solennità della Pentecoste – sia per la modalità in quanto tutti i sacerdoti, in ossequio alle norme anti-Covid, hanno indossato le mascherine e, per mantenere il distanziamento sociale, non hanno occupato il presbiterio, ma i banchi dove si siedono i fedeli laici.

Durante l’omelia, tutta incentrata sul tema del ministero ordinato, il Vescovo Carlo Bresciani ha affermato: “Carissimi sacerdoti e diaconi, è con grande gioia e consolazione che celebro con voi questa santa messa, detta crismale per la consacrazione degli olii santi che serviranno per l’amministrazione dei sacramenti della salvezza. Lo desideravo da molto tempo. Il fatto che questa consacrazione degli olii santi avvenga con la partecipazione di tutto il presbiterio, rimanda immediatamente a quell’opera comune cui siamo chiamati in virtù del ministero che ci è stato affidato. Il sacramento, infatti, non è mai opera del singolo, ma di Cristo attraverso la sua Chiesa, qui rappresentata da tutti noi. Attraverso l’amministrazione dei sacramenti esercitiamo un aspetto fondamentale della nostra paternità spirituale nei confronti dei fedeli. Carissimi, siamo chiamati ad essere buoni amministratori dei doni di Dio, sapendo che, come amministratori, ne siamo costituiti custodi.

Dio affida a noi come custodi ciò che di più prezioso ha da donare al mondo: nell’eucaristia ci affida il corpo del suo unico Figlio e attraverso lui tutti gli altri sacramenti della fede. In un certo qual senso siamo costituiti custodi come san Giuseppe che fu chiamato ad essere custode di Gesù. Nella colletta della santa messa del 19 marzo, festa di san Giuseppe, così abbiamo pregato: “Accogli, Signore, il nostro servizio sacerdotale e donaci la stessa fedeltà e purezza di cuore che animò san Giuseppe nel servire il tuo unico figlio, nato dalla Vergine Maria».

San Giuseppe è, quindi, esempio e speciale patrono di noi sacerdoti, come ci ha ricordato papa Francesco nella lettera apostolica Patris corde mandata in occasione del 150 anniversario della dichiarazione di san Giuseppe patrono della Chiesa universale. La meditazione di questa lettera, in quanto sacerdoti, è molto suggestiva. Può aiutarci a meditare sul nostro essere custodi del dono che ci è stato fatto con l’imposizione delle mani e custodi dei fedeli affidati alle nostre cure. Vi esorto a farlo.

Vorrei, qui, soffermarmi brevemente con voi a meditarne alcuni aspetti in questo giorno in cui siamo chiamati a rinnovare le nostre promesse sacerdotali.

Giuseppe è l’uomo dalle poche parole (quanto anche noi preti abbiamo da imparare dal silenzio di Giuseppe!). Egli parla pochissimo o nulla, nelle difficoltà interroga Dio e vive intensamente, non sottraendosi mai alle sue responsabilità, anche quando sconvolgono i suoi leciti progetti umani. Come il sacerdote egli ha offerto tutta la sua vita, rinunciando ad essere padre di un figlio da lui stesso generato, per donare a noi il Figlio unico di Dio: è il suo umile e maturo modo di servire e di partecipare all’economia della salvezza. Servizio discreto, ma sempre attivo; umile, ma sempre guida autorevole della santa famiglia, obbediente anche quando non capiva i progetti che Dio andava attuando.

Due verbi guidano la vita di san Giuseppe: servire e partecipare. Due verbi che guidano la nostra esistenza presbiterale. Verbi che sono richiamo continuo alla santità sacerdotale nel ministero che ci è affidato: quello di  portare e proteggere Gesù nel mondo. Verbi che dovrebbero rimanere oggetto frequente della nostra meditazione. Servire partecipando a progetti comuni: Giuseppe serve non seguendo un proprio progetto,ma affidandosi al progetto di Dio. In questi verbi, carissimi, c’è una fecondità superiore a quella fisico-biologica! Sono la sorgente della fecondità del nostro ministero. A noi, infatti, è affidata nei confronti dei fedeli una paternità per molti aspetti simile a quella di san Giuseppe. Il papa tratteggia le caratteristiche di questa paternità.

San Paolo VI osservava che la paternità di san Giuseppe si è espressa concretamente «nell’aver fatto della sua vita un servizio, un sacrificio, al mistero dell’incarnazione e alla missione redentrice che vi è congiunta; nell’aver usato dell’autorità legale, che a lui spettava sulla sacra Famiglia, per farle totale dono di sé, della sua vita, del suo lavoro; nell’aver convertito la sua umana vocazione all’amore domestico nella sovrumana oblazione di sé, del suo cuore e di ogni capacità, nell’amore posto a servizio del Messia germinato nella sua casa» (Omelia del 19 marzo 1966).

Le sei caratteristiche della santità di Giuseppe individuate da papa Francesco sono: tenerezza, obbedienza, accoglienza, coraggio creativo, lavoratore, padre nell’ombra. Sono caratteristiche di colui è stato chiamato a prendersi cura del corpo di carne di Gesù, nato da Maria vergine. Possono delineare il volto paterno del ministero cui è affidata la cura del corpo di Cristo che è la Chiesa.

La tenerezza è l’atteggiamento di colui che ama ed è lineamento essenziale della cura di chi deve essere accompagnato nella crescita; atteggiamento tanto più necessario quanto più il corpo è sofferente a causa delle povertà materiali e spirituali da cui è afflitto.

L’obbedienza: come Giuseppe si è lasciato guidare dalla Parola di Dio anche nell’oscurità dei tratti del cammino che era chiamato a compiere per custodire e proteggere Gesù e Maria, come gli era stato indicato dall’angelo, così noi siamo chiamati a fidarci della parola di Dio anche quando, e forse soprattutto quando, non ci è chiaro il cammino che abbiamo davanti a noi. L’obbedienza è affidamento alla volontà del Padre. Giuseppe prima l’ha vissuta e poi ha insegnato anche a Gesù a far sì che suo cibo fosse fare la volontà di Dio suo Padre. Solo se vivremo l’obbedienza – tra poco lo prometteremo rinnovando le nostre promesse sacerdotali – potremo essere padri che guidano all’obbedienza.

L’accoglienza: Giuseppe accoglie Maria senza mettere condizioni preventive. Così papa Francesco: “Tante volte, nella nostra vita, accadono avvenimenti di cui non comprendiamo il significato. La nostra prima reazione è spesso di delusione e ribellione. Giuseppe lascia da parte i suoi ragionamenti per fare spazio a ciò che accade e, per quanto possa apparire ai suoi occhi misterioso, egli lo accoglie, se ne assume la responsabilità e si riconcilia con la propria storia. Se non ci riconciliamo con la nostra storia, non riusciremo nemmeno a fare un passo successivo, perché rimarremo sempre in ostaggio delle nostre aspettative e delle conseguenti delusioni”. Non si tratta, qui, di passività rassegnata e delusa, ma del frutto della virtù della fortezza, che è dono dello Spirito. Carissimi “solo il Signore può darci la forza di accogliere la vita così com’è, di fare spazio anche a quella parte contraddittoria, inaspettata, deludente dell’esistenza” di ciascuno di noi, senza cercare facili e illusorie scorciatoie consolatorie.

Coraggio creativo: Giuseppe ha saputo essere creativo nelle difficoltà. Cito ancora papa Francesco: “Se la prima tappa di ogni vera guarigione interiore è accogliere la propria storia, ossia fare spazio dentro noi stessi anche a ciò che non abbiamo scelto nella nostra vita, serve però aggiungere un’altra caratteristica importante: il coraggio creativo. Esso emerge soprattutto quando si incontrano difficoltà. Infatti, davanti a una difficoltà ci si può fermare e abbandonare il campo, oppure ingegnarsi in qualche modo. Sono a volte proprio le difficoltà che tirano fuori da ciascuno di noi risorse che nemmeno pensavamo di avere”. Dio si affida al nostro coraggio creativo e affida a noi la sua Chiesa. Non chiede la nostra avventatezza, ma quell’amore che diventa creativo e non rinunciatario nelle difficoltà. Un detto popolare recita: “la difficoltà aguzza l’ingegno”: di chi ama, aggiungo io.

Giuseppe lavoratore: egli ha lavorato onestamente per garantire il proprio sostentamento e quello della sua famiglia. Noi non lavoriamo mai solo per noi stessi, ma anche per gli altri. Non abbiamo famiglia, ma comunque il nostro onesto guadagno non è solo per noi stessi, ma anche per i bisognosi che incontriamo, ovviamente ciascuno secondo le sue possibilità. Il nostro ministero è anche un lavoro e, come ogni lavoro, è contrassegnato da fatica. Non fabbrichiamo cose, ma aiutiamo le persone a trovare in Dio il vero senso della loro vita e tutto ciò ha una  grande dignità anche dal punto di vista sociale. Lo rivendichiamo con umiltà, ma anche con determinatezza. Siamo collaboratori di Dio nella creazione di un mondo nuovo e nella custodia del corpo di Cristo che è la Chiesa.

Padre nell’ombra: Dice papa Francesco: Padri non si nasce, lo si diventa. E non lo si diventa solo perché si mette al mondo un figlio, ma perché ci si prende responsabilmente cura di lui. Tutte le volte che qualcuno si assume la responsabilità della vita di un altro, in un certo senso esercita la paternità nei suoi confronti”. È questa la nostra paternità, quella che dà senso alla nostra vita e le dona pienezza. Ogni sacerdote, ogni vescovo dovrebbe poter dire con l’apostolo Paolo: «Sono io che vi ho generato in Cristo Gesù mediante il Vangelo» (1Cor 4, 15).

Ascoltiamo ancora papa Francesco: “Essere padri significa introdurre il figlio all’esperienza della vita, alla realtà. Non trattenerlo, non imprigionarlo, non possederlo, ma renderlo capace di scelte, di libertà, di partenze. Forse per questo, accanto all’appellativo di padre, a Giuseppe la tradizione ha messo anche quello di “castissimo”. Non è un’indicazione meramente affettiva, ma la sintesi di un atteggiamento che esprime il contrario del possesso. La castità è la libertà dal possesso in tutti gli ambiti della vita…L’amore che vuole possedere, alla fine diventa sempre pericoloso, imprigiona, soffoca, rende infelici. Dio stesso ha amato l’uomo con amore casto, lasciandolo libero anche di sbagliare e di mettersi contro di Lui. La logica dell’amore è sempre una logica di libertà, e Giuseppe ha saputo amare in maniera straordinariamente libera. Non ha mai messo sé stesso al centro. Ha saputo decentrarsi, mettere al centro della sua vita Maria e Gesù … Tutte le volte che ci troviamo nella condizione di esercitare la paternità, dobbiamo sempre ricordare che non è mai esercizio di possesso, ma “segno” che rinvia a una paternità più alta. In un certo senso, siamo tutti sempre nella condizione di Giuseppe: ombra dell’unico Padre celeste, che «fa sorgere il sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45); e ombra che segue il Figlio.”. Quanto dobbiamo sempre di nuovo imparare da tutto ciò!

Carissimi sacerdoti e diaconi, teniamo davanti a noi come modello del nostro ministero la figura di Giuseppe, uomo giusto, imitiamone le virtù umane e di fede. A noi è affidato il corpo sacramentale, eucaristico, di Cristo e il suo corpo ecclesiale di cui per amore e con amore siamo chiamati a prendercene cura. Lo facciamo volentieri con l’atteggiamento proprio di chi ama. In questo giorno rinnoviamo il nostro sì a Dio che ce lo affida, pronti a percorrere le strade, anche impreviste, che egli ci indicherà.

Maria sarà sempre accanto a noi, come lo è stata con Giuseppe. Da suoi figli devoti chiediamo a lei, che ha saputo stare accanto agli apostoli, che sia sempre accanto a noi come madre tenera e amorevole, madre in cui possiamo sempre trovare conforto nelle fatiche del nostro cammino e con lei condividerne le gioie.

Redazione: