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A tu per tu con la dott.ssa Giuseppina Petrelli, primario del Pronto Soccorso e della Medicina d’Urgenza

SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Prosegue il nostro viaggio all’interno dell’Ospedale Madonna del Soccorso con la Dott.ssa Giuseppina Petrelli. Originaria di Grottommare, ove pure risiede, ha frequentato il Liceo Classico Leopardi di San Benedetto del Tronto e si è laureata e specializzata all’Università Cattolica di Roma. Nel suo curriculum troviamo una Specializzazione in Medicina d’Emergenza-Urgenza, un Master di I livello in Organizzazione Sanitaria e diversi stage, presso ospedali italiani di eccellenza, sulle procedure interventiste sul paziente acuto. Oltre ad essere docente nazionale del Gruppo Simeu (Società Italiana di Medicina d’emergenza-urgenza) sul trattamento della insufficienza respiratoria acuta in emergenza, in particolare con cpap/ventilazione non invasiva per medici d‘urgenza, è Presidente della Simeu Regionale Marche e Primario della Unità Operativa di Pronto Soccorso e Medicina d’Urgenza del Presidio Ospedaliero di San Benedetto del Tronto dal 1° Novembre 2018.

Come è cambiata la vita al Pronto Soccorso da quando è iniziata l’emergenza coronavirus?
Tutto è cambiato da quando è iniziata l’emergenza. Innanzitutto la pandemia con i suoi numeri ha imposto cambiamenti strutturali ed organizzativi costanti in base all’andamento della pandemia stessa. Ricordo di aver redatto un numero infinito di protocolli relativi a come affrontare la nuova tipologia di pazienti dal punto di vista organizzativo e professionale, in quanto spesso la soluzione della settimana precedente non era utile per la successiva: tutto doveva essere coerente con i cambiamenti imposti dal virus o necessari per trattare al meglio i pazienti in base alle nuove acquisizioni scientifiche. Il secondo obiettivo era sempre quello di garantire la protezione del personale, attraverso adeguati dispositivi di sicurezza, in base al livello di intensività in cui si lavorava: a volte mascherine FFP2, altre volte le FFP3, tute, occhiali, tripli guanti, caschi di protezione che certamente proteggono, però rendono più difficoltose le procedure sui pazienti (pensate a cosa vuol dire per un infermiere prendere un accesso venoso indossando tre paia di guanti, cosa vuol dire essere chiusi in una tuta con solo gli occhi scoperti per ore e ore … sacrifici enormi ). La risposta organizzativa poteva essere l’unica risposta possibile per attenuare – per quanto possibile – questo disagio:  per questo motivo, sia io, in quanto Direttore di UO, che le coordinatrici del PS e della Medicina d’urgenza e la posizione organizzativa del DEA abbiamo lavorato molto, tenendo presenti le indicazioni ministeriali, dell’OMS, del Gores e della società scientifica dei medici e infermieri dell’emergenza (Simeu).

Come è cambiata, invece, la sua vita personale?
Sul lavoro è stato estremizzato un senso dell’impegno e del sacrificio che ho sempre avuto, ma che adesso è diventato totalizzante, troppo totalizzante, quindi spero di tornare a una normalità di rapporto con il mio lavoro e a una normalità dei miei rapporti affettivi. Sono una persona che ha sempre tenuto a coltivare i propri affetti familiari, con mio marito, i miei genitori, i miei fratelli, gli adorati nipoti, e con gli amici, a cui spero in futuro di dedicare più tempo, senza paura di poterli contagiare, perché ho sempre pensato che è dalla contaminazione con gli altri che ci si arricchisce dentro.

Ci sono stati contagiati nel suo reparto?
In reparto abbiamo avuto, nella prima ondata, un’infermiera contagiata che, dopo un breve ricovero in medicina d’urgenza, ha purtroppo dovuto vivere sulla propria pelle l’esperienza dell’intubazione. In quella fase facevamo il tifo per lei e paradossalmente era lei che ci dava la forza di lavorare, quasi come se, più ci fossimo impegnate a salvare altre vite, più aumentasse la probabilità di salvare la sua. Ora per noi è una gioia grandissima trovarcela ancora vicina. Si è salvata, sta bene ed ha scelto di tornare a lavorare con noi. Questo dimostra l’affezione degli infermieri e dei medici urgentisti al loro lavoro: essere eroe vuol dire per noi semplicemente svolgere con coscienza e competenza il nostro lavoro e il nostro dovere. Nella seconda ondata, che ha visto una maggiore contagiosità del virus, abbiamo avuto un numero sempre contenuto ma più elevato (due medici e alcuni infermieri) di contagiati, ma tutti asintomatici o paucisintomatici, tutti attualmente al lavoro con noi e in buona salute.

L’accesso al Pronto Soccorso in periodo di Covid è più o meno frequente del solito? Nota inoltre delle differenze tra le varie ondate della pandemia?
È meno frequente, grazie all’utilizzo più appropriato del PS per le situazioni di vera emergenza o di traumi. Esistono però molti pazienti fragili, anziani in particolare e ospiti di RSA o strutture protette, che comunque accedono e ai quali bisogna dare adeguate risposte.

Come riuscite a gestire la paura del paziente e a mantenere un rapporto di umanità, nonostante le restrizioni?
Mai come in questa fase, operatori sanitari e pazienti sono stati così vicini, accomunati inizialmente dalla paura di un’infezione dai contorni inquietanti (e oltretutto sconosciuti) e uniti poi per la condivisione di una condizione di solitudine assoluta. L’umanità era tutta in questa condivisione. Mai è accaduto prima che un paziente andasse incontro al suo destino senza stringere la mano di un familiare, mai uno di noi aveva sentito il peso e la preoccupazione di contagiare un proprio caro con un abbraccio. Allora abbiamo scelto di stare soli, soli tra noi, ma con i nostri pazienti. Con i loro familiari eravamo l’unico tramite: quante volte ho visto infermieri e OSS accendere anche il proprio cellulare per far fare videochiamate ai pazienti con i loro familiari! Come medici abbiamo dato a volte brutte notizie, ma la maggior parte delle volte la notizia della notizia: ce l’abbiamo fatta, ce l’abbiamo fatta insieme! E noi eravamo i più contenti. Si è trattato di un’esperienza umana e professionale molto forte, a tratti toccante, che ci ha fatto riscoprire la bellezza della nostra professione.

C’è qualche paziente di questi mesi che le è rimasto nel cuore più di altri? Perché?
Ho nel cuore tutti i pazienti trattati, di qualsiasi età ovviamente, e li ricordo tutti. Ricordo in particolare, però, una coppia a cui avevamo riservato una stanza solo per loro. Si amavano molto, ma purtroppo la malattia aveva avuto un andamento diverso tra i due coniugi. All’inizio era più malato il marito, molto riservato e silenzioso, il quale per respirare aveva avuto bisogno del ventilatore. Gli avevamo spiegato l’importanza di quella terapia e lui, nonostante le difficoltà, cercava di collaborare. La moglie, più espansiva e preoccupata, ci pregava di sollevarlo da quella tortura, ma non era possibile, e parlando così lo angosciava. In una seconda fase poi è peggiorata anche la moglie, che però si dichiarava contenta di questo, così almeno lei e il marito potevano condividere la stessa difficoltà … e anche lui ne era quasi contento, così si sarebbero concentrati meglio, senza che lei parlasse così tanto. E così è andata. Tutti e due ce l’hanno fatta e sono certa che si ameranno ancora di più!

Cosa si sente di dire a chi ancora è scettico in merito all’esistenza del Covid?
Consiglierei di parlare con qualche familiare di pazienti deceduti o con persone che abbiano contratto la malattia ed abbiano vissuto l’esperienza del ricovero, senza pregiudizi, solo ascoltandoli. Sono certa che poi rivaluteranno la loro posizione.

Come hanno vissuto la vaccinazione gli operatori sanitari?
La vaccinazione è sicuramente l’unica possibilità di uscire dal tunnel. I vaccini proposti si sono dimostrati sicuri, basati sulla iniezione di Rna per indurre la produzione di anticorpi contro la proteina Spike. Nelle persone che si sono vaccinate l’organismo ha prodotto anticorpi protettivi verso l’infezione in una percentuale superiore al 90%, ma perché questa protezione funzioni deve svilupparsi un’immunità di gregge, per cui deve vaccinarsi la maggior parte della popolazione. Nonostante le polemiche io penso che sarà così. Inizialmente si parlava di molti oppositori al vaccino, addirittura tra i sanitari. Nella realtà dei fatti non è stato affatto così. Vado orgogliosa del fatto che nella mia UO si è vaccinato il 100% dei medici e il 95% del personale del comparto, dando così una grande prova di sensibilità e di professionalità. Nessuno di noi ha avuto reazioni avverse pericolose.
Consigliamo a tutti di vaccinarsi e colgo l’occasione per ringraziare la Direzione Sanitaria e i Distretti e tutto il servizio di prevenzione per l’immenso sforzo organizzativo che sta facendo, anche ottenendo ottimi risultati.

Nonostante le restrizioni a cui siamo tutti sottoposti e la maggiore fatica quotidiana che la sua professione richiede, c’è qualcosa di positivo che l’esperienza della pandemia le ha lasciato?
Innanzitutto tornare all’essenzialità dei valori, quali la solidarietà, il senso del dovere, il senso di responsabilità: erano virtù che sembravano superate, ma che in realtà si sono rivelate salvifiche in questa fase.

Che messaggio si sente di dare ai nostri lettori?
Sconfiggeremo questa pandemia, come tutte le altre, ma certamente ci vorrà ancora tempo, come per le altre. Valgono però alcune regole fondamentali: il virus cammina e si diffonde con le nostre gambe. Anche da vaccinati dobbiamo necessariamente continuare ad utilizzare presidi e distanziamento sociale come le nostre armi più affilate, per garantirci un futuro libero da questo virus, per tornare ad assaporare la libertà di un abbraccio, l’emozione di stare in un teatro, il piacere di un viaggio e lo stimolo delle relazioni umane.

Carletta Di Blasio: