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‘Ndrangheta, a Lamezia Terme il maxi-processo

Alberto Baviera

325 imputati, 438 capi di imputazione, 913 testimoni d’accusa e 58 collaboratori di giustizia chiamati a deporre. Bastano questi pochi numeri per avere idea di quanto il maxi-processo Rinascita-Scott contro alcune potenti cosche della ‘ndrangheta calabrese che si è aperto il 13 gennaio a Lamezia Terme possa rappresentare un punto di svolta nel contrasto alla criminalità organizzata in Calabria. “Per i calabresi è un momento di speranza, si guarda a questo processo con un senso di liberazione”, afferma don Francesco Carlino, parroco a Roccella Ionica, nella diocesi di Locri-Gerace.

Cosa si attende la gente della Calabria da questo processo?
I numeri manifestano che c’è veramente e finalmente un risveglio nelle coscienze. Già solo il numero dei collaboratori di giustizia è significativo: 58 sono tanti, visto che nel mondo della ‘ndrangheta è molto più difficile rispetto a quanto avviene per mafia e camorra. Come dice il procuratore Nicola Gratteri si è aperta una faglia non indifferente nel muro di omertà e di collusione tra criminalità organizzata, massoneria e politica. Dalle indagini viene fuori un’immagine che c’era nell’inconscio o nel subconscio di tutti. Oggi

c’è una Regione intera, la Calabria, che aspetta di essere liberata da questo marchio terribile. Perché la stragrande maggioranza dei calabresi è gente onesta che dice ‘Liberiamoci da questa piovra’.

La ‘ndrangheta non si combatte solo nelle aule di tribunale. La Chiesa non ha fatto mancare la propria voce…
La Chiesa, e lo testimonia lo stesso dottor Gratteri, ha fatto un percorso di graduale risveglio. Dai tempi in cui ci si voltava dall’altra parte per paura o, peggio, c’era il negazionismo, si è passati a prese di posizione dell’Episcopato calabro con documenti forti contro la ‘ndrangheta. Dopo le parole pronunciate da Papa Francesco il 21 giugno 2014 nella Sibaritide, con cui ha scomunicato la ‘ndrangheta, c’è stato un ulteriore risveglio perché sono state uno “scossone” per la stessa Chiesa calabrese: ci hanno fatto capire che

non si può stare in zone di chiaroscuro, facendo finta di non vedere.

Cosa che invece è successa nei decenni scorsi?
Di fronte a questo gigante mostruoso, fatto di collisioni tra poteri, la Chiesa in passato ha avuto un po’ paura. Oggi c’è la coscienza che bisogna assolutamente prendere posizione. La Chiesa lotta e ha personalità di spicco come don Giacomo Panizza nel Lametino, dove ieri si è aperto il processo, che per anni è stato di fatto un’isola in mezzo all’oceano. Ma, sul territorio regionale, ci sono ancora delle resistenze, forse più a livello parrocchiale, per essere all’altezza della lotta alla criminalità mafiosa. Per questo,

c’è ancora molto da fare; in alcune diocesi ci vorrebbe un impegno assunto con più decisione per superare definitivamente quel “silenzio colposo” dimostrando di essere una Chiesa coraggiosa.

Come il contrasto alla criminalità organizzata diventa prassi quotidiana nelle realtà ecclesiali?
Per quanto mi riguarda, costantemente nelle omelie parlo dell’impegno cristiano e dell’opposizione che c’è tra essere discepoli di Gesù e appartenere alla malavita organizzata. Ma anche negli incontri con i giovani dell’Azione Cattolica e dell’Agesci, in quelli con gli studenti, nella direzione spirituale e nelle confessioni c’è continuamente un’attenzione ad aiutare la formazione delle coscienze. Questo anche perché c’è una psicologia giovanile su cui la mafia trae beneficio: un ragazzo di una famiglia con fragilità economica, che non si sente nessuno, nel momento in cui viene “battezzato”, cioè viene affiliato, improvvisamente cammina per le strade con orgoglio perché si sente qualcuno. I mafiosi sanno benissimo giocare su questo meccanismo psicologico e i giovani che, poveretti, vengono coinvolti sono “ubriachi di ‘ndranghiteria” e non si rendono conto che sono entrati in un sistema nel quale faranno gli interessi di altri come spacciatori e killer avendo come destino quello del carcere.

Per fortuna però non tutti fanno la stessa fine…
Ne abbiamo salvati parecchi. Giovani che abbiamo aiutato a prendere coscienza del rischio che correvano, grazie all’aiuto di amici psicologi e attraverso la direzione spirituale, e che hanno lasciato la malavita organizzata. C’è quindi una dimensione di purificazione e di educazione sempre necessaria. Come Chiesa abbiamo ancora la fortuna di incontrare i ragazzi, che “passano” da noi per il cammino in preparazione a Comunione e Cresima. Ogni anno, a tutti i ragazzi, faccio fare un’esperienza di ascolto di un ex carcerato perché si rendano conto di cosa rischiano se entrano dentro quel mondo.

Sempre più dobbiamo lavorare dal punto di vista culturale e della formazione delle coscienze, dobbiamo avere più coraggio e determinazione per sconfiggere definitivamente zone di omertà.

Perché, purtroppo, ancora in troppe famiglie si respira una mentalità contraria allo Stato, portata all’odio contro le Forze dell’ordine e propensa all’illegalità.

A tal proposito, cosa dovrebbe fare di più lo Stato?
Capita spesso che vengano sciolti Comuni per infiltrazioni mafiose; in questi casi lo Stato deve mandare dei commissari all’altezza della situazione perché altrimenti in quei territori si vive una “sonnolenza” e le cose non migliorano se manca un’attenzione alle infrastrutture, alla viabilità, alla sanità.

Lo Stato anche in Calabria deve investire sulla promozione umana con vie di comunicazione e servizi efficienti,

altrimenti si fa un favore alla criminalità mafiosa alimentando la sfiducia nello Stato. Così come servono un’economia e delle norme bancarie che permettano alla povera gente che ha bisogno di non andare a rivolgersi agli usurai, perché non dimentichiamo che la mafia è anche strozzinaggio.

Qual è la situazione nella sua diocesi?
Il vescovo Oliva è molto impegnato nella lotta alla criminalità mafiosa, basti pensare che qualche anno fa ha rispedito indietro un contributo di 10mila euro che una ditta in odore di collusione con la mafia aveva dato ad una parrocchia per lavori di restauro. E ha dimostrato anche grande coraggio nella vicenda del santuario di Polsi, dove è intervenuto perché cambiassero tante cose. Proprio in questi giorni il rettore, don Tonino Saraco, è stato fatto oggetto di insulti e scritte offensive. Lui, in questi anni, si è assunto il compito duro di ridare splendore e dignità a questo luogo, in passato sede delle riunioni dei capibastone calabri per decidere le varie consorterie, con un impegno volto a “bonificare” e “purificare” il santuario con il sostegno decisivo di mons. Oliva.

L’impegno messo in campo dalla realtà ecclesiale calabrese è sufficiente?
Come Chiesa in Calabria dovremmo fare di più.

Ci vuole una Chiesa compatta, che abbia coraggio e determinazione;

nella quale non si va in ordine sparso. Per questo si potrebbe tenere un Sinodo regionale per dare al fenomeno della ‘ndrangheta una risposta sinodale e culturale.

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