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Scuola. Affinati: “Il Covid ci ha mostrato che non si può essere felici se l’infelicità colpisce chi è accanto a noi”

di Giovanna Pasqualin Traversa

In uno scenario fino a pochi mesi fa imprevedibile e del tutto inedito sta per ripartire l’anno scolastico tra timori e speranze. Timori per un aumento dei contagi, speranze in una nuova ripartenza che si lasci alle spalle i mesi drammatici del lockdown al quale anche bambini e ragazzi hanno pagato un prezzo altissimo con la rinuncia forzata alla scuola, all’incontro con i compagni, alla relazione con gli insegnanti. Per loro il ritorno in classe sarà un momento di grande emozione, atteso e desiderato come mai in precedenza; forse guarderanno con occhi diversi l’importanza di essere “comunità”. Ma lo sarà anche per gli insegnanti, pur nel timore per il rischio contagio e la preoccupazione di mantenere il distanziamento fisico tra gli alunni, più semplice in aula seduti nei banchi; certamente più difficile a ricreazione. Eraldo Affinati, scrittore e insegnante romano, fondatore con la moglie Anna Luce Lenzi della Penny Wirton scuola gratuita di italiano per immigrati, è un autentico educatore, nel senso più profondo del termine. Due anni fa, a settembre 2018, gli avevamo chiesto di rivolgere idealmente un messaggio e un augurio ai ragazzi, alle famiglie e agli insegnanti. Oggi, a pochi giorni dal suono della prima campanella, gli abbiamo rinnovato la richiesta. Ecco che cosa ci ha detto.

La ripartenza della scuola, nonostante le misure sanitarie adottate, costituisce una grande sfida, ma una sfida ineludibile perché la vera scuola è quella in presenza.
Credo anch’io che la vera scuola sia quella in presenza. Il maestro deve far brillare gli occhi dei suoi studenti, dunque ha bisogno di uno spazio reale, non virtuale. Quando spieghi, scopri gli ingranaggi, fai vedere chi sei, ti mostri anche nei tuoi errori. Esprimi un concetto, poi subito lo cambi appena intuisci che non è stato bene inteso, oppure lo rafforzi e lo rilanci, se noti che l’hanno assorbito. Il gruppo intorno a te – non davanti a te! – è una comunità viva, palpitante, un organismo in continua mutazione e tu lo puoi formare, lo puoi far crescere. Ecco la grande responsabilità dei docenti, specialmente oggi, nell’epoca digitale, dove tutto sembra uguale a tutto, mentre invece esistono gerarchie da scoprire, valori da difendere, speranze da conquistare.E’ la classe nella sua interezza che ti detta le frasi perché certe cose le puoi dire in un modo o in un altro, a seconda delle persone a cui ti rivolgi. Sono i ragazzi i tuoi interlocutori.Tutto questo sullo schermo perde intensità, diventa una semplice cartolina rispetto al quadro originale. Sappiamo che il ricorso alla didattica a distanza è stato obbligatorio per cause di forza maggiore legate al Covid-19. Adesso è arrivato il momento di provare a convivere col virus. La grande sfida sarà proprio questa.

Professore, in questo scenario, qual è oggi il suo messaggio e augurio ai ragazzi?
Io credo che oggi i ragazzi siano migliori rispetto a quello che erano prima del confinamento. Hanno vissuto un’esperienza drammatica di solitudine che li ha temprati. Vorrei che non dimenticassero ciò di cui, durante il lockdown, hanno sentito la mancanza: la vicinanza degli amici, il gruppo classe, la scansione quotidiana. Si sono resi conto di quanto siano importanti i momenti trascorsi insieme, proprio perché questi sono venuti a mancare.Ne è scaturita una consapevolezza di coralità dalla quale, sostenuti dagli educatori, dovrebbero ripartire.Per far sì che il mio bene coincida col tuo, dobbiamo lavorare entrambi. Cosa ci dovrebbe insegnare l’educazione civica, da quest’anno opportunamente reintrodotta nelle nostre scuole, se non questo?

E alle famiglie?
Da marzo a maggio le famiglie hanno potuto vedere cosa vuol dire fare scuola. Un conto era sentirlo raccontare dai figli. Un altro conto assistere personalmente alle lezioni e magari, in certi casi, sostituirsi all’insegnante verificando in concreto la fatica che ci vuole per accendere e mantenere l’attenzione dei ragazzi. Questo potrebbe aver creato le premesse per un legame autentico fra genitori e istituzioni preposte all’istruzione. Si tratta di un rapporto non sempre facile, tuttavia mai come oggi è necessario fare fronte comune per ricucire il tessuto sociale ed economico lacerato dal virus.

Agli insegnanti, ai quali due anni fa augurava di lasciarsi “contagiare” dal sorriso degli alunni, che cosa si sente di dire?
Devono essere sempre più consapevoli del valore insostituibile che incarnano. Se l’Italia sta per ripartire lo dobbiamo anche a loro. Durante la forzata interruzione gli insegnanti, come i medici e gli infermieri, ed altre categorie professionali indispensabili, hanno tenuto in mano il Paese. Ciò ha contribuito ad accrescere la loro funzione sociale. Nel momento più tragico, ci si è resi conto della profonda dimensione educativa che hanno i docenti. Se, come io credo, le scuole sono presidi etici da difendere ad ogni costo, essi rappresentano i principali custodi della tradizione culturale da consegnare alle nuove generazioni affinché queste possano costruire il futuro.

Più in generale, qual è la “lezione” che la pandemia consegna al mondo della scuola?
La pandemia ha reso evidenti alcune ingiustizie già conosciute: chi non aveva i necessari supporti informatici, non ha potuto fare lezione. Certi spazi domestici inadeguati e la mancanza di efficienti reti wi-fi hanno accresciuto il divario sociale. D’altro canto, la grande accelerazione tecnologica a cui abbiamo assistito è stata assai utile: ora dovremmo renderla strutturale con un piano di formazione digitale nazionale. Anche le sperimentazioni che stiamo mettendo in campo adesso per la ripartenza (frazionamento dei gruppi, superamento delle cosiddette classi pollaio, rimodulazione degli orari e degli spazi didattici) potranno esserci utili quando, uscendo dall’emergenza, anche fruendo dei tanti sospirati finanziamenti europei, saremo chiamati a progettare una scuola nuova.

Alla vigilia della prima campanella, qual è il suo auspicio per quest’anno scolastico e come vorrebbe la scuola “del futuro”, tenendo conto che nulla sarà come prima?
L’auspicio immediato è che non si debba essere costretti a tornare indietro, nella distanza digitale. Al massimo speriamo di dover soltanto ricorrere alla didattica mista, in caso di necessità sanitaria o organizzativa. Poi sarebbe molto positivo se la scuola del futuro avesse assorbito il sentimento di fragilità che tutti abbiamo provato negli scorsi mesi primaverili. Ci siamo sentiti in pericolo. E questo ci ha affratellati. Per un attimo abbiamo compreso che non si può essere felici se l’infelicità colpisce chi sta accanto a noi. Ecco perché vorrei tanto che la politica non si mettesse a speculare sul sentimento più bello nato come un fiore in mezzo alle rovine.

 

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