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Hong Kong, legge sulla sicurezza nazionale

M. Chiara Biagioni

Bocche imbavagliate. Ad Hong Kong la gente ha paura di parlare. Con la nuova legge sulla sicurezza nazionale, si rischia la prigione anche solo affrontando la questione. C’è un clima di tensione nella ex colonia britannica. Basta una parola in più per finire nei guai. Per questo la fonte contattata dal Sir fa subito una premessa: chiede di mantenere l’anonimato. La nuova legge sulla sicurezza nazionale firmata dal presidente cinese Xi Jinping, punisce con estrema severità, fino all’ergastolo, i reati di secessione, sovversione, terrorismo e collusione con forze esterne. E all’articolo 38, si afferma che la legge può essere applicata anche su persone che non sono permanentemente residenti ad Hong Kong. Agli occhi del mondo, è un’ulteriore stretta imposta dalla Cina sull’autonomia di Hong Kong garantita secondo il principio “One country two systems”. Una mossa severissima che ha immediatamente provocato la dura opposizione di Usa, Ue e Gran Bretagna. Ma è la gente di Hong Kong a scendere per le strade della città. Lo fa dopo un anno di crescenti violenze e rivolte. La legge è stata varata mentre il 1° luglio la ex colonia britannica celebrava i 23 anni (era il 1997) della consegna di Hong Kong dal Regno Unito alla Cina continentale.

Per l’occasione, le Commissioni diocesane Giustizia, pace e lavoro e il Consiglio delle Chiese cristiane di Hong Kong hanno organizzato un incontro di preghiera nella Chiesa di Nostra Signora del Monte Carmelo, a Wan Chai. La Chiesa – sebbene non grandissima – era piena di gente. Nel suo messaggio di saluto, il vescovo ausiliare Joseph Ha Chi-shing, ha affermato: “Secondo la dottrina sociale cattolica, il fondamento ultimo di tutti i diritti umani deriva dalla dignità umana che a sua volta proviene dall’essere figli di Dio. Questa dignità ci dice che non siamo schiavi, ma figli della libertà di Dio”. Secondo quanto si legge sul settimanale “Examiner” della diocesi di Hong Kong, in passato, le celebrazioni per l’anniversario includevano sfilate, cerimonie di alzabandiera, spettacoli culturali, partite sportive e uno spettacolo pirotecnico. Ma quest’anno a causa della legge sulla sicurezza, il governo ha bloccato ogni manifestazione e per la prima volta in 17 anni, la marcia annuale per la democrazia, che si tiene dal 2003, non è stata consentita.

La tensione, dunque, è altissima. Per capire l’atmosfera che si sta vivendo, basta entrare in questi giorni nelle scuole dove si stanno tenendo, in questo periodo, attività di fine anno con le “graduation ceremonies”. Gli istituti che hanno un retroterra religioso (soprattutto cattolici e protestanti) aprono spesso queste cerimonie con una preghiera per Hong Kong. Ma se negli anni passati si pregava per “tutti i governanti” affinché “sappiano usare la loro saggezza per promuovere il benessere delle persone”, quest’anno la preghiera – dopo l’approvazione della legge – è stata cambiata eliminando il termine “governanti”, in quanto la citazione poteva essere equivocata.

La gente ha paura di finire nel regime in vigore nella Repubblica Popolare Cinese. Questa paura non è nuova: è almeno da due anni che le persone ad Hong Kong temono che le cose possano cambiare e cambiare per il peggio. Un indice di questa paura è il numero crescente delle persone che decidono di emigrare, soprattutto chi ha tra i 30 e i 40 anni ed ha figli piccoli. Sono soprattutto loro a vedere ormai il futuro all’estero. Si è addirittura creata una situazione in cui anche all’interno delle famiglie stesse, anche tra amici stretti, fratelli e parenti, si evita di parlare di questi argomenti politici a meno di non essere sicuri che l’interlocutore non abbia le stesse idee.

C’è di una polarizzazione molto forte tra chi è a favore del potere costituito e chi chiede riforme. Nel mezzo ci sono persone che preferiscono non pronunciarsi o comunque non voglio esprimere chiaramente le loro idee e prendere posizione. L’area degli insoddisfatti è molto eterogenea. Comprende tutti quelli che vogliono qualcosa di diverso rispetto all’attuale situazione: c’è chi chiede l’indipendenza e chi un referendum per decidere il futuro di Hong Kong. Ci sono gli attivisti, i partiti democratici nati negli anni ’70, i gruppi socialisti. Sono realtà molto diverse tra loro ma al momento si ritrovano uniti sostanzialmente per esprimere insoddisfazione e chiedere riforme democratiche. Sta di fatto che chi sta partecipando in questo momento alle manifestazioni, ha messo in conto di poter finire in prigione anche per un lungo periodo.

Quale via di uscita. Tutto si gioca a livello di politica interna cinese e comunità internazionale. L’impressione è che l’attuale dirigenza cinese sia accerchiata. Dall’interno per una situazione che è andata progressivamente peggiorando per via della pandemia e della sua cattiva gestione, la crisi economica, la disoccupazione, la povertà. La legge sulla sicurezza nazionale potrebbe addirittura essere stata varata per creare un diversivo e spostare l’attenzione dai reali problemi del Paese. Le dure posizioni invece prese proprio in questi giorni da Trump e dall’Unione europea, non convincono il cittadino medio di Hong Kong che rimane estremamente insoddisfatto: qui si ha l’impressione che si tratti di prese di posizione di principio ma che gli interessi economici vengono comunque prima della difesa dei diritti umani.

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