“Il popolo ha ragione a manifestare per esprimere il proprio dissenso sulle scelte politiche che negano anche i diritti minimi.
Basta con le promesse, è tempo di fatti concreti”.
Padre Paul Karam, presidente di Caritas Libano, sintetizza l’appello lanciato ieri dall’assemblea dei patriarchi e vescovi libanesi, cattolici, ortodossi e di altre denominazioni cristiane, al termine di una riunione tenutasi a Beirut. All’ordine del giorno le proteste popolari contro il carovita e la corruzione che da giorni stanno riempiendo strade e piazze in moltissime città del Paese.
“Il Governo – dice il presidente della Caritas, riferendosi direttamente alla dichiarazione finale dell’assemblea – ha il dovere e la responsabilità ultima di operare riforme e cambiamenti per dare risposte concrete al popolo; il popolo, a sua volta, deve essere fedele alla sua storia e non lasciarsi andare in atteggiamenti violenti, facilmente strumentalizzabili, ma protestare pacificamente per chiedere ciò che è giusto. Provocare il caos porterebbe il Paese in una via senza uscita;
la comunità internazionale, infine, è chiamata a sostenere il Libano nell’accoglienza dei rifugiati siriani (1,5 milioni) e non restare a osservarlo mentre brucia”.
Malgoverno trentennale. “I manifestanti, di tutte le fedi, etnie e idee politiche, chiedono soprattutto il lavoro e la fine della corruzione. Questo non significa prendersela con i rifugiati siriani, la loro dignità va rispettata, ma vogliono che la comunità internazionale aiuti il loro Paese a sostenere questo peso”.
“La gente chiede acqua, medicine, energia elettrica, trasporti, istruzione, assicurazione sociale e giustizia: chi è corrotto, chi ha rubato venga processato da tribunali indipendenti e non politicizzati e restituisca indietro tutto il denaro trafugato. Durante gli anni della presenza dell’esercito siriano in Libano (le ultime truppe siriane sono uscite nel 2005, dopo 29 anni di presenza, ndr.) tanti hanno approfittato di questa situazione per arricchirsi”.
Si tratta, dunque, di “proteste frutto di un malgoverno trentennale che parte dagli accordi di Taif (ottobre 1989) siglati per mettere fine alla guerra civile in Libano (1975-1990). I governi che si sono succeduti da allora – spiega il sacerdote – sono stati caratterizzati da corruzione e clientelismo, per nulla votati al bene del Paese e del popolo, quanto piuttosto al benessere personale o del proprio centro di potere”.
“Restare un messaggio”. Non deve sorprendere, allora, la disaffezione dei libanesi verso la politica: “è altissima – dice padre Karam –, alle ultime elezioni parlamentari del 6 maggio 2018 ha votato solo il 49,2% degli aventi diritto. Soprattutto i giovani hanno disertato le urne. Un messaggio non recepito dalla politica”. Adesso il rischio “è cadere in un vuoto politico. Lo abbiamo già sperimentato nei due anni e mezzo durante i quali non abbiamo avuto il presidente della Repubblica.
Dobbiamo cercare vie di dialogo per uscire presto da questa situazione nella quale possono infiltrarsi persone e gruppi che non vogliono il bene del Paese. Le strumentalizzazioni politiche e religiose di questa protesta popolare sono da evitare.
Ripeto: il popolo grida e manifesta quando non ha un lavoro, una casa, quando non ha garantiti i diritti di base, quando non vede un futuro sostenibile, quando subisce una corruzione diffusa”.
“Il popolo vuole vivere in dignità e in giustizia”.
“Il Libano, come disse Papa Giovanni Paolo II nel suo viaggio nel nostro Paese nel 2000 – ricorda padre Karam – ‘non è un Paese, ma è un messaggio’ di convivenza e di solidarietà, un esempio di multiculturalità pacifica e libera. La comunità internazionale – conclude – ci aiuti a restare questo ‘messaggio’”.