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Monache Clarisse: La “salvezza” dipende anche da noi

DIOCESI – Lectio delle Sorelle Clarisse del monastero Santa Speranza in San Benedetto del Tronto.

«Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno».
Un padrone di casa che «chiuderà la porta» e che ci dirà «Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!».
«Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio…voi invece cacciati fuori».
Ma come, Signore? Tu che sei il Dio della misericordia ci parli di porte strette da attraversare per entrare a stare con te, addirittura di porte chiuse, di uomini cacciati…ci dirai che non ci conosci!
Dov’è il Dio buono, il Dio fedele, il Dio che mai ci abbandona? È stato tutto uno sbaglio, un equivoco?
È una pagina di Vangelo impegnativa quella che, oggi, la liturgia ci propone.
Tutti siamo chiamati a vivere in eterno accanto al Signore: ma questa “salvezza” non dipende da Dio, non è Lui che chiude la porta…essa dipende da noi, dalla risposta che vogliamo donargli in tutta libertà, tutto dipende dalla nostra decisione per il Vangelo, dal nostro deciderci per quel Dio che «era in cammino verso Gerusalemme».
Gesù non sta facendo una passeggiata trionfale su questa terra ma il suo cammino tra gli uomini è un cammino che punta diritto verso la realizzazione definitiva del progetto del Padre, verso la passione, la morte, verso lo spendere totalmente la propria vita perché l’uomo “conosca” la vera vita.
Seguire il Signore, fare esperienza di Lui, non è, però, questione, come leggiamo sempre nel Vangelo, di mangiare e bere alla sua presenza, di essere presenti nelle “piazze” dove Gesù insegna. Per dirla con termini attuali, non è questione di rosari detti, sbandierati o baciati, né di quantità di messe a cui partecipiamo, né di devozioni, servizi o tantomeno studi che portiamo avanti.
Seguire il Signore è decidere volontariamente e liberamente di camminare verso Gerusalemme, verso la croce! E questo non significa accettare passivamente croci, malattie, disgrazie, ma scegliere di fare della propria esistenza, ognuno nel suo stato di vita, dono, accoglienza, preghiera, di attuare quelle scelte d’amore disinteressato che derivano solo dall’aver toccato personalmente con mano l’Amore e la misericordia di Dio nel nostro quotidiano.
Un Dio, come scrive l’autore della lettera agli Ebrei, che è Padre e che ci «tratta come figli». E da figli siamo accompagnati, custoditi, nutriti ma anche corretti e ripresi: tutto ciò attraverso la Parola che ascoltiamo e che diventa, quindi, strumento necessario ed indispensabile per rinfrancare «le mani inerti e le ginocchia fiacche» e camminare diritti con i nostri piedi.

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