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Siria: viaggio negli ospedali cattolici di Damasco e Aleppo, “la sofferenza è la malta per ricostruire il Paese”

Daniele Rocchi

Un crocifisso insanguinato, privo di arti, coronato da proiettili e bossoli sparati durante la guerra. Che non è ancora finita. Impossibile non guardarlo mentre si passa nel lungo corridoio che dalla cappella porta ai padiglioni dell’antico (1905) ospedale cattolico di Saint Louis di Aleppo (60 posti letto), città martire siriana, gestito dalle suore di San Giuseppe dell’Apparizione. Un’immagine che meglio di ogni parola descrive quanto avviene in questo nosocomio e in altri due, quello italiano e l’altro francese – sempre dedicato a Saint Louis – di Damasco, gestiti rispettivamente dalle suore salesiane e dalle Figlie di san Paolo. Veri e propri “ospedali da campo”, per dirla con Papa Francesco, che fanno parte del progetto “Ospedali aperti”, avviato in Siria nel 2017, per iniziativa del nunzio apostolico, card. Mario Zenari, con l’apporto sul campo di Avsi. Lo scopo è uno solo: offrire cure gratuite ai più poveri e ai più vulnerabili. Bombardati, danneggiati, vessati dalle sanzioni di Usa e Ue, ma sempre aperti e pronti a curare.

“A chi arriva non viene chiesto se è cristiano o musulmano, oppositore o governativo, oppure un terrorista. Sono tutte creature di Dio, povere e bisognose di cure”.

Dal novembre 2017 ad oggi i tre nosocomi hanno erogato 22.779 servizi medici gratuiti con moderne attrezzature sanitarie. E adesso, per la fine del 2020 si punta a quota 50 mila. “Poche gocce nell’oceano”, verrebbe da dire, guardando la drammatica situazione sanitaria della Siria, dove a causa della guerra più della metà degli ospedali pubblici e dei centri di prima assistenza sono chiusi o parzialmente agibili e dove quasi due terzi del personale sanitario ha lasciato il Paese. Ma poi camminando nelle corsie di questi ospedali ci si accorge che non è così.

Tre gocce. Una di queste gocce è Ibrahim. Oggi balla, salta, solleva le gambe, muove la caviglia. E sorride. Il tempo di risistemarsi i capelli impomatati e poi torna a sedersi a terra sui cuscini. Quel giorno, di due anni fa, nella zona di Ghouta, alle porte di Damasco, quando un razzo gli fece crollare la casa addosso provocandogli fratture scomposte alla gamba, sembra oramai solo un brutto ricordo. “Sono stato lunghi mesi fermo, non potevo camminare e lavorare – ti racconta mentre si carezza la gamba operata piena di cicatrici – non avevo soldi nemmeno per comprare una caramella a mio figlio.

Se oggi posso tornare a sognare un futuro per me e per la mia famiglia è anche grazie a chi mi ha permesso di curarmi e ai medici dell’ospedale francese di Damasco”.

Un’altra goccia è Evangelina Strambouli, anziana signora di origini greche, cristiana ortodossa. All’ospedale cattolico di Aleppo le hanno salvato la vita due volte. Non ha più nessuno, il marito è morto, ed è vegliata ogni giorno dal suo vicino di casa musulmano dal nome che è tutto un programma, Fadi, ovvero “Angelo”. E poi c’è Ahmed che dal suo letto non cessa mai di ringraziare i medici che lo hanno curato invocando su di loro la benedizione di Allah, seguito a ruota dal figlio, Imaad. Vengono da Hama, nella Siria centrale. Senza le cure nell’ospedale cattolico di Aleppo, dice “sarei già morto. Non ho parole per ringraziarvi”. Il primario dell’ospedale aleppino, George Theodory, risponde a tutti con un sorriso. Ma poi non nasconde le difficoltà che ci sono nel portare avanti questa missione. “Dei 141 ospedali e centri clinici attivi ad Aleppo prima della guerra ne sono rimasti funzionanti solo 44.

I pazienti sono tanti e l’embargo Usa e Ue li costringe a lunghe attese per avere esami diagnostici.

I nostri macchinari hanno bisogno di manutenzione e di pezzi di ricambio che non arrivano. Ma grazie al progetto del nunzio Zenari ora possiamo disporre di nuove apparecchiature, molte delle quali donate dalla Conferenza episcopale italiana. Cerchiamo di curare al meglio con ciò che abbiamo”.

Il sogno dei siriani. Ibrahim, Evangelina e Ahmed sono solo alcune delle migliaia di siriani che hanno ricevuto cure gratuite nell’ambito del progetto “Ospedali aperti”. I loro sogni sono quelli di tutti i siriani: “vedere la fine della guerra, tornare a condurre una vita serena con un lavoro e una casa”. A raccogliere questi sogni sono un team di assistenti sociali, tra loro Dhalia, Boshra, Shaza, Rama, Tala e Rima, guidate dal coordinatore del progetto, George N. e dalla capo progetto Flavia C. Sono loro per prime ad accogliere le persone che vengono a chiedere assistenza medica e ad ascoltare i drammi della guerra, della povertà. Ma anche i loro sogni, il primo su tutti:

“guarire e vedere il nostro Paese risorgere”.

E sono sempre loro ad accompagnarle nel percorso di cura che non è solo fisica ma anche morale e spirituale. La cosa più bella? “Vedere la persona guarita e pronta a ripartire con nuova forza e speranza”. Come il piccolo Amer, 11 anni di Deir Ezzor, rimasto ustionato dopo un bombardamento, impossibilitato a camminare e oggi sulla via della guarigione grazie anche ai sacrifici della madre che per restare con lui a Damasco si alza all’alba per vendere pagnotte di pane in strada. Non mancano i ringraziamenti che a volte assumono le sembianze di piccoli dolci o di profumi. “Il loro grazie – dichiara George – è anche per tutti quei donatori, piccoli e grandi, che da ogni parte del mondo contribuiscono al progetto. Senza di loro non potremmo fare molto”.

Tra disperazione speranza. Lo sanno bene suor Carol Tahhan, salesiana, e suor Fekria Mahfouz, vincenziana, che dirigono rispettivamente l’ospedale italiano (55 posti letto) e quello francese della capitale siriana. Quest’ultimo con i suoi 101 posti letto è il più grande dei tre nosocomi del progetto che ha da pochi giorni avviato la sua seconda fase che pone tra i suoi obiettivi anche un software gestionale per mettere in rete i tre ospedali e la formazione tecnica con corsi di aggiornamento e training per il personale sanitario. “Con il progetto del card. Zenari abbiamo aumentato le prestazioni mediche” afferma suor Fekria mentre scruta il display con le immagini delle 36 telecamere a circuito chiuso messe a protezione del nosocomio colpito da 40 colpi di mortaio (ben 4 volte nel gennaio 2018) durante gli ultimi anni. Nel suo pc mostra anche le foto dei feriti e dei morti portati in ospedale dopo un attacco, le fasi concitate nel pronto soccorso, le cure, le operazioni di urgenza, “la disperazione per una vita persa e la gioia per una salvata”.

“Oggi – racconta – la situazione è molto cambiata. Non si combatte più se non nella zona di Idlib, ma c’è un’altra guerra che stiamo fronteggiando e si chiama povertà. Nel Paese il salario minimo mensile si aggira sui 50 dollari, circa 18 mila lire siriane (government salary). Una miseria”.

Anche la religiosa punta l’indice contro le sanzioni Usa e Ue che di fatto, afferma, “hanno conseguenze pesanti sulla popolazione. Elettricità, gas e benzina sono razionati. Problemi anche a livello sanitario dove il divieto di transazioni con banche internazionali impedisce a molte aziende farmaceutiche estere di commerciare con la Siria provocando mancanza di medicinali e difficoltà nel reperire forniture e macchinari sanitari. Nonostante tutto andiamo avanti, il nostro carisma è quello di accogliere i poveri. La popolazione si fida di noi, ha rispetto della nostra missione. Cerchiamo di stare al loro fianco curando e dando conforto e ascolto”. “Curare la persona significa anche curare la sua famiglia – conferma suor Carol, direttrice dell’Ospedale italiano.

“La sofferenza accomuna tutti senza distinzione. Può diventare la malta per cementare la ricostruzione del nostro Paese”.

“Le prime medicine che somministriamo sono la fraternità e l’accoglienza. Tutti vengono trattati con la dignità che meritano, sono malati bisognosi di cure” ribadisce il primario del nosocomio italiano, Joseph Fares, specialista in chirurgia generale e laparoscopica, mentre compie il suo giro tra le camere e i laboratori molti dotati di nuovi macchinari donati dalla Cei grazie ai fondi dell’8×1000. “La guerra lascia segni e ferite difficilmente rimarginabili.

La medicina più efficace è l’umanità.

Trattare le persone con umanità rispettando la loro dignità. Il bene è contagioso, si trasmette e ricostruisce corpo e anima. Nei nostri ospedali cattolici combattiamo la povertà e la guerra a colpi di bisturi, medicine e tanto amore”. Se vinceremo questa guerra? “Stiamo già vincendo. Ogni volta che un malato viene curato nel corpo e nello spirito per noi è una vittoria”. Come ricorda il Crocifisso insanguinato di Aleppo…

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