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Proteste gilet gialli. Mons. Pontier (vescovi francesi): “Mettersi in ascolto del grido dei più poveri”

M. Chiara Biagioni

(da Parigi) “Ascoltare il grido dei più poveri. È solo mettendosi in ascolto dei poveri che riusciremo a ridare fiducia alla gente. Ciò che stiamo vivendo non solo in Francia ma anche in Europa, è una crisi di fiducia e la fiducia si guarisce se chi è al potere si prendere cura di tutti, e soprattutto di chi lancia gridi di dolore”. È questa la lettura che monsignor Georges Pontier, arcivescovo di Marsiglia e presidente dei vescovi francesi, fa al fenomeno dei gilet gialli che sta scuotendo la Francia e le maggiori città del Paese. Dopo i saccheggi violentissimi di sabato 16 marzo, il governo francese ha deciso di schierare i militari in piazza. Si tratta addirittura delle forze speciali antiterrorismo “Sentinelle”, un totale di 7mila soldati di cui 3.500 impiegati a Parigi. Del clima sociale e politico “incerto” del Paese mons. Pontier ha parlato anche nella prolusione con cui si è aperto oggi, 2 aprile, a Lourdes l’Assemblea plenaria dei vescovi francesi. Un incontro importante perché avviene ad un mese circa dalla condanna del Tribunale di Lione al cardinale Barbarin per omissione di denuncia e perché i vescovi saranno chiamati a nominare, in questo delicato momento della Chiesa cattolica d’oltralpe, il nuovo presidente della Conferenza episcopale. Incontrato a Parigi alla vigilia della plenaria, mons. Pontier si lascia intervistare dal Sir alla fine del suo mandato, partendo dalle manifestazioni, spesso purtroppo violente, dei gilet gialli.

Mons. Pontier, ci può spiegare cosa sta succedendo?
Sottolineerei due elementi. Il primo è il sentimento di grandi ineguaglianze tra ricchi e poveri che ci sono nel nostro Paese. Ci sono persone che pur ricevendo uno stipendio regolare, fanno fatica a vivere o hanno una pensione così bassa che non riescono a sopravvivere, e tra l’altro viene schiacciata dalle tasse. L’altro elemento per capire come è nato questo fenomeno, è che ci sono nel nostro Paese interi territori, lasciati completamente in abbandono. Possono essere zone urbane o rurali. In entrambe mancano servizi primari come le poste, gli ospedali, i presidi sanitari per la maternità.

Intere zone del Paese ridotte a deserto.

A questi due fenomeni, si aggiunge la perdita di fiducia non solo nei responsabili politici ma anche nei sindacati, in tutti quei corpi intermediari (e a mio parere questo è grave) che solo fino a qualche anno fa, erano la voce del popolo.

Proteste che ogni sabato sfociano in violenza. Chi sono i violenti?
C’è stato tutto un movimento che è partito dalla base e non da organismi istituzionalizzati che si è via via costituito per manifestare e dare voce alla stanchezza della gente, per esprimere la rivolta. Ciò che è stato fortemente mediatizzato all’esterno è stata la violenza che ha accompagnato queste manifestazioni dei gilet gialli. Violenza che non è assolutamente condivisa né espressa dalle persone che erano all’origine della protesta e che è opera di gruppi di estrema sinistra ed estrema destra che si sono uniti alle manifestazioni

per prendersela con lo Stato (sono degli anarchici), con i ricchi, i poliziotti.

È stato pertanto facile a quel punto affiancare il fenomeno dei gilet gialli ai comportamenti violenti e di distruzione di quei gruppi. In realtà i gilet gialli sono scesi per strada per manifestare la loro rivolta contro le ingiustizie, contro le ineguaglianze sociali del nostro Paese.

Qual è la posizione della Chiesa nei confronti dei gilet gialli?
Noi, come Chiesa, la prima cosa che abbiamo fatto è stata quella di creare luoghi di dibattito perché ci è subito apparso chiaro che ciò che manca in queste manifestazioni dei gilet gialli sono spazi in cui è possibile esprimersi ed essere ascoltati. C’è qualche leader che prende la parola ma non esprime tutti e non esprime realmente i sentimenti e le attese della gente. Si sta quindi cercando (e lo sta facendo anche lo Stato) di creare gruppi di dibattito perché i cittadini si possano dare degli strumenti, in rispetto alle diversità degli approcci, per arrivare ad un consensus comune sulle proposte e sulle soluzioni a questa crisi che stiamo attraversando.

Non solo la Francia, ma tutta l’Europa è attraversata da questi problemi. Le ineguaglianze economiche e sociali stanno facendo vittime e le persone non si sentono più sicure del loro futuro. Che impressione le fa questa Europa?
Credo, prima di tutto, che l’Europa sia una buona cosa e così l’Unione europea. Una cosa buona di cui noi oggi non abbiamo consapevolezza e che invece ci ha dato e continua a dare dei vantaggi. Prendiamo, per esempio, la protezione che l’Ue mette in atto in termini di regole rispetto alle grandi potenze mondiali come gli Stati Uniti e la Cina. Siamo tutti parte di un’unità che ci permette di resistere a influenze esterne. Probabilmente però sono dinamiche lontane dai cittadini. E spesso il malcontento viene strumentalizzato da alcuni politici che accusano ingiustamente e in modo disonesto Bruxelles per i mali dei loro Paesi e la loro mancata responsabilità politica alla base di decisioni inadatte per rispondere alle crisi. D’altra parte non si può neanche idealizzare l’Europa. L’Europa è di ciascun Paese. La sfida più grande oggi è lavorare affinché al suo interno nessuno è lasciato da parte, le minoranze sono rispettate, i deboli ascoltati.

È importante che le persone vedano che le ineguaglianze che sono iscritte nel loro Paese, non dureranno per sempre perché c’è la volontà di guarirle.

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