Andrea Zaghi

L’agricoltura 4.0 esiste, ha uno spazio dignitoso, ma deve fare i conti con la disponibilità di risorse e con le peculiari caratteristiche delle sue stesse produzioni. Non solo questione di tradizione, ma anche – e soprattutto – di ambiente e di metodo produttivo. La presenza di tecnologie 4.0, tuttavia, indica che il persistere nei campi di due realtà che pare riescano a convivere: la grande modernità e la altrettanto grande tradizione produttiva.
Il punto sull’agricoltura 4.0 è stato fatto da una indagine di Nomisma presentata a Bologna pochi giorni fa. All’interno di un campione significativo di imprese, il 42% degli intervistati appare essere interessato al tema ma ammette di non avere risorse e competenze per potere investire in strumenti innovativi; al contempo il 27% si dichiara scettico poiché ritiene che i vantaggi dell’innovazione siano sovrastimati e che si tratti soltanto di una questione legata a una moda temporanea. Il 18% – “i futuristi teorici” – pensa che l’innovazione sia essenziale per la crescita economica e sono disposti anche ad indebitarsi pur di introdurre un’innovazione. Infine esiste la categoria degli “sperimentatori” – che rappresenta il 13% del campione – che credono nell’innovazione e la applicano quotidianamente per migliorare la gestione aziendale. Al di là della conoscenza e delle sperimentazioni, l’indagine indichi comunque che solo il 22% ha davvero investito negli ultimi tre anni in tecnologie agricole che possono dirsi 4.0. A crederci talmente tanto da spenderci dei soldi (anche se l’investimenti medio si aggira attorno ai 5mila euro), sono naturalmente imprese con ben determinate caratteristiche. La propensione è cioè maggiore nelle aziende del Nord, dei settori dell’allevamento, cerealicolo e delle colture industriali, con una classe di fatturato di oltre 50.000 euro e una presenza consistente di Millennials (giovani di 18-35 anni). E il 78% che ha preferito non investire in tecniche 4.0? I motivi di questa scelta sono due: le risorse economiche (35,8% dei casi), e le piccole dimensioni dell’azienda (31,9%).
L’agricoltura 4.0 quindi stenta a sfondare il muro non della scarsa conoscenza, ma della ancora limitata diffusione. Anche se ad essa vengono riconosciuti meriti importanti come la riduzione delle quantità di fitofarmaci, concimi e acqua distribuiti per ettaro, la riduzione dell’impatto ambientale e un miglioramento della qualità del prodotto, l’abbattimento dei costi di produzione e l’incremento delle rese per ettaro/capo, la riduzione dei tempi di lavoro (16%). Certo, occorre fare attenzione. Non bisogna pensare che chi non applica tecnologie 4.0 sia agricoltore retrogrado e legato mani e piedi ad una tradizione ferma nel tempo. Il problema sono le risorse e le conoscenze che devono certamente essere maggiori. Oltre che le condizioni stesse nelle quali la produzione agricola viene condotta. In agricoltura l’equilibrio fra vecchie e nuove tecnologie non è mai fissato una volta per tutte: cambia ogni giorno ed è mutevole dovendo comunque sottostare a regole non fissate completamente dall’uomo.
Ha ragione però Paolo De Castro – primo vicepresidente della Commissione agricoltura e sviluppo rurale del Parlamento europeo, ma soprattutto economista agrario -, che ha spiegato: “Si sente un gran parlare di agricoltura 4.0 e di smart farming ma presentare casi concreti è meritevole perché fa realmente apprezzare il significato di queste tecnologie e i vantaggi competitivi in termini di costi e sostenibilità ambientale”. Insomma, per far crescere l’agricoltura 4.0 e quindi l’intero comparto, sono necessari quindi finanziamenti da un lato ma anche grande informazione dall’altro. Non è cosa semplice da fare, ma è certamente la strada – accanto al sano mantenimento delle tradizioni che fanno della nostra agricoltura qualcosa di unico al mondo -, per far crescere ancora l’agroalimentare nazionale.

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