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Caritas: 200mila persone incontrate dai centri d’ascolto, più uomini che donne

Stefano De Martis

Una povertà che tende a diventare cronica; che si presenta come un fenomeno complesso, conseguenza di diversi fattori, in cui spicca quello educativo e culturale, e che investe sempre più i minori e i giovani. E’ questo il quadro tracciato dal volume “Povertà in attesa. Rapporto Caritas italiana 2018 su povertà e politiche di contrasto”, presentato a Roma nella sede della Fondazione Con il Sud. Una ricerca che arriva nel pieno del dibattito sul Reddito di cittadinanza, formalmente deciso dal governo con il disegno di legge di bilancio e di cui pure non si conoscono ancora gli esatti profili, anche perché dovrebbe essere oggetto di uno dei disegni di legge collegati alla manovra economica.

Il Rapporto riassume tutti i principali elementi delle statistiche note sulla povertà assoluta e nel contempo propone un punto di vista assolutamente speciale, quello dei centri d’ascolto della Caritas. Hanno partecipato alla rilevazione 1.982 strutture collocate in 185 diocesi, a cui nel 2017 si sono rivolte 197.332 persone. Volti, non numeri, e le storie che sono raccolte nel volume dicono forse più di tante statistiche. Eppure anche i numeri sono necessari per conoscere i fenomeni collettivi e per mettere a punto interventi non generici.

Delle persone incontrate dai centri d’ascolto nel 2017, il 42,2% è di cittadinanza italiana, il 57,8% straniera.

Se nel nord e nel centro prevalgono gli stranieri (rispettivamente 64,5% e 63,4%), nel sud le storie intercettate sono per lo più di italiani (67,6%). Tra gli stranieri la quota più numerosa proviene dal Marocco (18,1%) e dalla Romania (12%). Nel complesso si conferma la diminuzione degli stranieri provenienti dall’Europa dell’Est a fronte di un ulteriore aumento degli africani. Al cambiamento delle dinamiche migratorie (ma anche al peggiore andamento della disoccupazione maschile rispetto a quella femminile) può essere ascrivibile il sorpasso degli uomini sulle donne tra le persone che si rivolgono ai centri, dopo quasi vent’anni di prevalenza femminile.

L’età media è 44 anni. I giovani tra i 18 e i 34 anni rappresentano la classe più numerosa (25,1%); tra gli italiani prevalgono le persone delle classi 45‐54 (29,3%) e 55‐64 anni (24,7%); i pensionati costituiscono il 15,6%. Le persone incontrate risultano per lo più coniugate (45,9%) e celibi/nubili (29,3%). Il 63,9% delle persone ascoltate, circa 89mila persone, dichiara di avere figli. Tra queste, oltre 26mila persone vivono con figli minori, la cui situazione risulta particolarmente preoccupante perché le deprivazioni materiali tendono ad attivare circoli viziosi che tramandano di generazione in generazione le situazioni di svantaggio. Oltre i due terzi delle persone che si rivolgono alla Caritas ha un titolo di studio pari o inferiore alla licenza media (il 68,3%); tra gli italiani questa condizione riguarda il 77,4% degli utenti. La situazione dei giovani della fascia 18‐34 anni desta ancor più preoccupazione: il 60,9% dei ragazzi italiani incontrati (fuori dal circuito formativo e scolastico), possiede solo la licenza media; il 7,5% può contare appena sulla licenza elementare. “La povertà educativa e culturale è una povertà radicale”, spiega Walter Nanni, responsabile dell’ufficio studi della Caritas italiana e uno dei curatori del Rapporto. Radicale proprio nel senso etimologico di riferimento alla radice del problema.

Ma la ricerca conferma in modo inequivocabile che la povertà è un fenomeno “multidimensionale”. I casi di povertà economica in senso stretto sono il 78,4%, seguiti dai problemi di occupazione (54%) e dai problemi abitativi (26,7%), in aumento rispetto al 2016. Alle difficoltà di ordine materiale seguono altre forme di vulnerabilità che in molti casi si associano alle prime: problemi familiari (14,2%), difficoltà legate alla salute (12,8%) o alle migrazioni (12,5%). Il 40% delle persone ha manifestato tre o più ambiti di difficoltà. Solo il 36,5% ha espresso difficoltà riferite ad una sola dimensione di bisogno. Le situazioni più frequenti di sovrapposizione di bisogni sono quelle in cui si combinano povertà e disagio lavorativo. Tuttavia il 46,1% degli utenti non dichiara problemi occupazionali e c’è un 4,2% che si è rivolto ai centri per problematiche di tipo non economico (malattia mentale, separazione, morte di un congiunto, difficoltà nell’assistenza di familiari, problemi di giustizia).

“La povertà – sottolinea don Francesco Soddu, direttore di Caritas italiana – non è solo mancanza di reddito o lavoro: è isolamento, fragilità, paura del futuro. Dare una risposta unidimensionale a un problema multidimensionale, sarebbe una semplificazione che rischierebbe di vanificare un impegno finanziario mai visto su questo tema”. Il pensiero va a un Reddito di cittadinanza concepito soltanto in chiave occupazionale e gestito dai centri per l’impiego, che così finirebbero per non avere le energie “per fare quello che devono fare”, osserva Cristiano Gori, responsabile scientifico del Rapporto e dell’Alleanza contro la povertà. “Oggi – insiste don Soddu – vanno evitati errori che rischiano non solo di utilizzare in maniera non efficace le risorse, ma di compromettere l’idea stessa di lotta alla povertà, riconsegnando alla sfiducia, alla incredulità e alla diffidenza questo tema. Nel nostro paese c’è un processo in atto di rafforzamento del welfare territoriale, introdotto dal Reddito di inclusione, che a nostro modo di vedere non va interrotto, perché le nostre comunità locali hanno bisogno anche di servizi sociali territoriali in grado di ascoltare e in grado di accompagnare le famiglie in difficoltà fuori dal tunnel della povertà”. Per il direttore della Caritas italiana occorre partire dai volti concreti delle persone in condizione di disagio “senza ideologismi o semplificazioni”, e “trovare una strada realistica, concreta e incrementale, per lottare contro povertà ed esclusione”. “Non facciamone una questione di nomi”, raccomanda Gori, che pure è il padre del Reis, il Reddito di inclusione sociale di cui il Rei in vigore è una parziale applicazione. “Bisogna evitare sia la riforma della riforma che l’immobilismo. Si tratta invece di proseguire sulla strada tracciata con il Rei estendendo e migliorando la misura, per arrivare fin dove ancora non si è riusciti ad arrivare. Con gli stanziamenti fissati dalla legge di bilancio si potrebbe davvero raggiungere un risultato storico”, ma questa possibilità “rischia di essere inficiata da pressioni di breve periodo”.

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