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Rapimento di padre Maccalli in Niger. P. Porcellato: “Ragioni economiche in un terreno fertile per i gruppi jihadisti”

Francesca Gagno

E’ dal Paese all’ultimo posto nel mondo per indice di sviluppo umano, il Niger, che è arrivata la notizia la scorsa settimana del rapimento di padre Pier Luigi Maccalli, cremasco, della Società delle Missioni a Bomoanga, villaggio della prefettura di Makalondi, vicino alla frontiera con il Burkina Faso. Uomini armati che si spostavano in moto hanno fatto irruzione nella missione, lo hanno preso e portato via; il confratello indiano che vive con lui è riuscito a mettersi in salvo. Nessuna rivendicazione è finora arrivata. Si presume che i rapitori siano jihadisti, terroristi islamici, che sono attivi nella zona da qualche tempo, provenienti dal Mali e dal Burkina Faso. “Padre Gigi è a Bomoanga dal novembre 2007 – racconta padre Antonio Porcellato, vicario generale della Sma, nativo di Poggiana di Riese -. Oltre che all’evangelizzazione, in questi anni si è molto dedicato alla promozione umana, al servizio dei bisogni sociali della popolazione della parrocchia: scavo di pozzi, costruzione di scuole e ambulatori, corsi di formazione per i giovani contadini”.

Perché credete che il rapimento possa avere ragioni economiche?
Diversi indizi, collegati alla loro identità e appartenenza etnica, oltre che le modalità dell’azione. Le autorità locali hanno fatto intendere che l’esito del rapimento sarà una richiesta di riscatto. Arriverà, ma presumibilmente non nell’immediato. Ci vuole pazienza, e bisogna prepararsi a tempi lunghi. Certo, tutto ciò accade in un Paese con tanti problemi, a livello ecologico per la desertificazione e la carenza di acqua, economico per gli alti tassi di povertà, politico a causa di governi precari, demografico, strategico e geopolitico.

Anche per il Niger le materie prime rappresentano un “lato oscuro”?
Lo sfruttamento dell’uranio nigerino illumina una lampadina su tre in Francia, mentre la maggioranza dei nigerini non ha accesso alla corrente elettrica.

La dicotomia fra povertà del Paese e le ricchezze minerarie e petrolifere sfruttate dagli stranieri, fornisce un fertile terreno per i gruppi jihadisti. Il connubio tra instabilità politico-governativa e indigenza della popolazione fanno del Niger un luogo “ideale” per vari attori interni ed esterni dove poter radicalizzarsi e portare avanti i propri interessi.

Avete parlato di “nebulosa jihadista”, perché?
Il Sahara e alcune zone del Sahel sono ormai diventati una base alternativa all’Afghanistan e al Medio Oriente. E’ qui che ha messo radici lo Stato Islamico nel Grande Sahara, branca del Daesh che opera nella regione africana. In una zona che i governi non riescono a controllare si intreccia di tutto: uranio, gruppi armati, eserciti internazionali, traffico di armi e droga, flusso di migranti…

E’ una nebulosa perché sono gruppi frammentati, dispersi e in continua trasformazione.

Ne è contagiato anche il Niger, una nazione i cui cittadini rimangono tra i più poveri del mondo, a dispetto delle ricchezze della terra su cui camminano da secoli.

Quali significati assume, oggi, la vostra presenza di missionari Africa?
Il nostro Istituto missionario nasce a metà dell’Ottocento con lo scopo dell’evangelizzazione dei Paesi africani con maggiore bisogno di missionari. Da allora il contesto politico sociale ed ecclesiale è cambiato tantissimo, si è addirittura capovolto.

Noi continuiamo a scegliere le periferie,

per utilizzare le parole di papa Francesco, gli ultimi, i più abbandonati, per farci vicini e testimoniare la buona notizia che viene dal Vangelo, camminando insieme con loro. Il nostro aiuto non è solo economico, ma va soprattutto nella direzione dell’autodeterminazione e dell’autopromozione dei popoli. I nostri missionari, ora, vengono da ogni parte del mondo, soprattutto dall’Africa, e l’interculturalità è una delle grandi sfide.

Il Niger è a stragrande maggioranza musulmana. Come sono i rapporti tra cristiani e musulmani?
Questo tema è molto complesso. Per il continente africano, in sintesi, si può dire che nei Paesi dove una religione è in netta maggioranza numerica, c’è una certa serenità di rapporti perché ogni parte si adatta alla propria condizione di maggioranza o minoranza. E’ il caso, per esempio, del Senegal. I conflitti, di solito, nascono nelle zone in cui le percentuali sono simili e si accende la lotta, anche dura, per il dominio culturale e politico, come, per esempio in Nigeria. In anni recenti molti giovani musulmani africani, formati nel Medio Oriente, hanno diffuso visioni fondamentaliste e jihadiste portando ad atteggiamenti di scontro. Anche alcuni gruppi cristiani pentecostali tendono a puntare più ad affermare l’identità che al dialogo. Ci sono certamente alcune esperienze positive di collaborazione e di pacifico convivere, ma il dialogo autentico fa fatica a superare la sfiducia e i pregiudizi reciproci.

Sebbene minoritario, anche questo Paese è attraversato dal tema migratorio…
Il Niger da diversi anni è il crocevia dei flussi migratori. In particolare, Agadez è il punto di transito di migliaia di africani diretti verso il Maghreb e il Mediterraneo. Ora la città vede aumentare sempre più il flusso inverso di sconfitti che cercano di tornare al paese, spesso più per disperazione che per convinzione. Le poetiche e suggestive azalaï, che in tamasheq, la lingua tuareg, indicano le antiche carovane di sale che solcavano il Niger e il Mali, fanno parte di un’epoca ormai coperta dalle sabbie del deserto.

Quel che è certo è che l’Africa, per quanti mali abbia, in 50 anni ha fatto progressi che l’Europa ha compiuto in 5 secoli. Tutto questo non è facile da gestire, ha un enorme impatto culturale, è una sfida per i governanti dei 54 Paesi del Continente che conta ormai oltre un miliardo di abitanti. E’ una sfida per il Vangelo che trova energie per mettere in moto processi di cambiamento e di fraternità.

(*) “La vita del popolo” (Treviso)

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