Michele Luppi

“Quello che vogliamo è un Paese dove non solo ci sia libertà di parola, ma dove si possa restare liberi dopo aver parlato”. La vicenda politica e umana di Solomon Madzore è racchiusa tutta in questa frase. Quarantadue anni, parlamentare dello Zimbabwe eletto nel 2013, è stato il presidente dell’assemblea giovanile dell’Mdc-T, il Movimento per il cambiamento democratico, principale forza di opposizione al presidente Mugabe e al suo Zanu Pf, al potere fin dall’indipendenza del 1980. Proprio a causa delle sue critiche al potere Madzore è stato costretto alla fuga: prima all’interno dello stesso Zimbabwe poi, al termine di una viaggio rocambolesco, in Italia dove ha chiesto e ottenuto asilo politico. Dal 19 settembre 2017 Solomon vive a Caravate, a pochi chilometri da Varese, dove è stato accolto dalla cooperativa Agrisol, legata alla Caritas della Diocesi di Como. Lo abbiamo incontrato alla vigilia delle elezioni presidenziali e politiche del 30 luglio, una tornata elettorale storica per il futuro del suo Paese perché per la prima volta, i cittadini dell’ex Rhodesia, non troveranno il nome di Robert Mugabe sulla scheda elettorale.

Il presidente, 93enne, è stato costretto alle dimissioni dall’intervento dell’esercito nel novembre 2017 che gli ha intimato di cedere il potere al suo ex vicepresidente, Emmerson Dambudzo Mnangagwa, a sua volta licenziato dallo stesso Mugabe poco tempo prima in un estremo tentativo di favorire la successione al potere della moglie Grace Mugabe.

“È un momento critico per lo Zimbabwe, un’ora cruciale, ora o mai più”, confida Madzore. “Il nuovo presidente – continua il deputato in esilio – ha tentato in questi mesi di ripulire l’immagine del Zanu-Pf, ma usando una metafora potremmo dire che è cambiato solo l’autista, la macchina resta sempre la stessa. Il popolo dello Zimbabwe invece ha sete di cambiamento”.

A contendersi la presidenza saranno ventitre candidati, ma – stando ai principali sondaggi – la partita dovrebbe essere ristretta tra Mnangagwa e Nelson Chamisa, giovane avvocato quarantenne, diventato leader della Mdc Alliance dopo la morte di Morgan Richard Tsvangirai, storico rivale di Mugabe.

Sullo sfondo un Paese economicamente in ginocchio, dove la moneta nazionale non esiste praticamente più, sostituita da «Bond Notes» (che ufficialmente valgono un dollaro, ma di fatto molto meno) e con i prezzi in costate aumento. “Credo che il problema principale – continua il deputato – sia ricostruire la fiducia nel Paese sia all’interno che all’esterno. Servono riforme democratiche e lotta alla corruzione per convincere i privati a tornare ad investire nel Paese e, con loro, tanti zimbabwani scappati all’estero potranno tornare. Senza dimenticare i benefici di un possibile aumento del turismo”.

Resta però il nodo della terra in quello che è stato per decenni considerato il “granaio dell’Africa”. La riforma agraria voluta da Mugabe nel 2000 con l’allontanamento dei grandi latifondisti bianchi per distribuirla alla popolazione nera è stata un fallimento. Riuscire a sbrogliare la matassa tra necessità di tecnologia e investimenti da una parte e ridistribuzione e inclusione dall’altra sarà una delle principali sfide per il futuro presidente.

Nel caso nessuno dei candidati ottenga il 50% più uno dei voti si andrà al ballottaggio. Uno scenario che, in molti, evoca il triste ricordo dei fatti del 2008 quando, dopo la vittoria al primo turno del leader dell’opposizione Tsvangirai, iniziò una stagione di violenze che portarono al ritiro del capo del Mdc dal ballottaggio, vinto da Mugabe con il 90 per cento dei consensi.
Un recente rapporto di Human Rights Watch ha documentato diversi episodi di minacce e intimidazioni durante la campagna elettorale soprattutto nelle zone rurali. Ma da una ricerca condotta da Afrobarometer, tra il 25 giugno e il 6 luglio, emerge un cauto ottimismo: la maggioranza della popolazione dello Zimbabwe (12 milioni di abitanti) resta positiva circa lo svolgimento libero e legale delle elezioni, anche se il 43% degli intervistati ha ammesso di avere paura di violenze e intimidazioni.

Situazione che Solomon Madzore conosce molto bene avendole vissute sulla sua pelle. Nel 2013 la sua storia fece il giro del mondo quando venne accusato di aver definito Mugabe un “asino zoppicante” (letteralmente “limping donkey”) durante un comizio e, per questo, arrestato. Esperienza che visse in altre due occasioni sempre per ragioni politiche: la prima volta nel 2007 e, successivamente, nel 2011 quando passo 405 giorni nel carcere di massima sicurezza di Chikurubi ad Harare. Un nome tristemente famoso in Zimbabwe. “Nel corso degli ultimi anni le intimidazioni da parte delle forze di sicurezza erano diventate sempre più dure – ci racconta Madzore – non solo nei miei confronti ma anche della mia famiglia”.

Nel mese di aprile 2017 mentre si trovava ad un comizio Salomon viene avvertito da un vicino di strani movimenti davanti alla sua abitazione. Tornato di corsa a casa trovò degli uomini delle forze di sicurezza che minacciano sua moglie e i suoi figli. “Hanno urlato a mia moglie che se non avesse detto dove mi nascondevo l’avrebbero stuprata davanti ai bambini – racconta -. A quel punto sono entrato di corsa in casa per difenderli. C’è stato trambusto, hanno provato ad arrestarmi ma sono riuscito a fuggire con gli uomini che mi inseguivano. Era il 18 aprile 2017, l’ultimo giorno in cui ho visto mia moglie e i miei figli”. Grazie alla rete di contatti tra gli oppositori Solomon riesce a scappare dal Paese, volando prima in Sudafrica a Johannesburg e poi a Istanbul, Lisbona e infine Malpensa. Una girandola durata oltre quattro mesi e conclusa proprio a Caravate.
“Il mio sogno è quello di tornare in Zimbabwe per ricostruire il mio Paese – conclude – ma per me ora è troppo rischioso. La mia famiglia vive da mesi spostandosi da una città all’altra, ma non appena avrò il permesso di soggiorno (la commissione di asilo ha già dato esito positivo ndr) chiederò il ricongiungimento familiare. Mi manca mia moglie e mi mancano i miei tre figli. Non vedo l’ora di riabbracciarli”.

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