Gianni Borsa

Tutti d’accordo, a parole, ma nei fatti tutti contrari. Così quasi sicuramente salta la riforma del Regolamento di Dublino. E mentre ogni governo canta vittoria (i leader parlano agli elettori e guardano ai sondaggi), l’impressione è che i perdenti siano molti, a partire dai Paesi del Mediterraneo. Senza trascurare il fatto che, trattandosi di migranti, ossia di persone, chi ci perde è la dignità umana, con una politica incapace di fornire risposte serie e praticabili. Salvo versare qualche lacrima al prossimo affondamento di una carretta del mare…

Quale la posta in gioco?

Il Regolamento in questione definisce “i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un Paese terzo o da un apolide”. Il testo attualmente in vigore – che si applica in tutta l’Ue con forza di legge – è conosciuto come Dublino III (Regolamento 604/2013), avendo sostituito il precedente Regolamento Dublino II (343/2003), che aveva tradotto in termini giuridici la Convenzione di Dublino firmata nel 1990, un trattato internazionale entrato in vigore nel 1997. Dublino III stabilisce che a farsi carico della domanda di asilo di chi mette piede in Europa è il Paese di approdo; tale regola di fondo risale al 2003, quando non ci si aspettava che i flussi in arrivo potessero assumere le dimensioni di oggi, andando a gravare anzitutto su Italia, Grecia, Malta e, seppure in misura minore, su Spagna, Cipro e Bulgaria. Va riconosciuto che, anche grazie ai contestati e contestabili accordi con la Turchia e la Libia, gli sbarchi sono fortemente diminuiti negli ultimi mesi, ma resta il fatto che soprattuttol’Italia sta affrontando praticamente da sola un gigantesco fenomeno socio-demograficoche ha alimentato – talora giustificati – timori nella popolazione, senso di insicurezza, persino qualche elemento xenofobo e razzista artatamente alimentato da alcuni media e forze politiche per ragioni elettorali. Sul versante opposto si sono invece collocati la Chiesa, con le sue strutture caritative, e tanta parte del volontariato, pur senza trascurare il richiamo al rispetto delle leggi da parte dei “nuovi arrivati”.

Perché la riforma?

La riforma di Dublino III è stata invocata da più parti, per aggiornare le norme Ue al mutato contesto. Si tratterebbe certamente di porgere una mano agli Stati più esposti al fenomeno migratorio, ma anche di regolare i flussi interni dei rifugiati e di rendere responsabili (parola chiave), nel segno della solidarietà (altro termine essenziale), tutti i Paesi aderenti all’Unione europea secondo il concetto “sfida comune, risposta comune”. In tale direzione si sono mosse le pur tardive proposte della Commissione Ue e la posizione dell’Europarlamento, intese a fare dell’accoglienza e gestione dei migranti, nonché della sicurezza delle frontiere, un compito condiviso fra i Ventisette (il Regno Unito è già considerato fuori dalla partita).Il testo migliore e più avanzato in tal senso è quello approvato dal Parlamento europeo nel novembre 2017che, in sostanza, stoppa la norma del “primo Paese d’ingresso”, introduce il criterio della redistribuzione automatica, proporzionale e in base al Pil, in tutti gli Stati, dei richiedenti asilo, e considera al contempo gli immigrati come esseri umani, tenendo conto nella distribuzione anche della loro provenienza, della lingua, degli eventuali legami familiari o etnici, persino della professione. Non da ultimo, Parlamento e Commissione premono per un “piano Marshall” a favore degli Stati africani di origine e transito dei flussi, così da favorirne lo sviluppo e andare così alla radice delle cause migratorie.

Da dove arriva questo “no”?

Il semaforo rosso alla riforma del Dublino III è giunto con la riunione dei ministri degli Interni del 5 giugno a Lussemburgo. Molte le implicazioni politico-giuridiche ma, in breve, si potrebbe confermare che la tanto invocata riforma delle regole per l’asilo nessuno la vuole realmente.I Paesi mediterranei – Italia, Grecia, Spagna, Malta, Cipro – la invocano ma non la sostengono(almeno non nella formulazione di compromesso avanzata dalla presidenza di turno bulgara), forse temendo un esito peggiore di quello attuale; e in più arrivano al Consiglio divisi tra loro. Di certo non la vogliono i Paesi di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) e i Baltici (Lettonia, Lituania, Estonia) che di migranti africani e mediorientali non ne vogliono sapere. Di traverso si mettono, per ragioni differenti, Germania, Francia, Paesi Bassi, Belgio, Romania e Slovenia. La Bulgaria aveva proposto di ridefinire il numero di anni in cui il Paese di approdo è “responsabile” del migrante (2 anni? 8 anni? 10 anni? – le varie soluzioni sul tavolo) e di confermare il criterio della responsabilità solidale nell’accogliere chi approda in Europa. Con posizioni spesso diametralmente opposte l’accordo si è allontanato e infine il compromesso offerto da Sofia è tornato in archivio.

Adesso cosa succede?

La presidenza bulgara porterà la sua bozza al Consiglio europeo del 28 e 29 giugno, senza sperare in una qualunque decisione. L’11 e 12 luglio è fissata la nuova riunione dei ministri degli Interni sotto presidenza austriaca, la quale ha annunciato in proposito una “rivoluzione copernicana” che punta, a quanto si apprende, a rafforzare le frontiere esterne e interne e ad escludere ogni forma di redistribuzione dei richiedenti asilo, procedendo nella direzione opposta da quella auspicata dai mediterranei. Tanto cheil ministro competente a Vienna, Herbert Kickl, ha fatto sapere che “noi siamo solidali con i cittadini europei, non con i migranti”.In questo clima le posizioni si irrigidiscono: il premier ungherese Viktor Orban è il capofila delle frontiere chiuse e il suo recente motto elettorale – non un migrante in Ungheria – sbarra la strada a qualsiasi solidarietà verso Italia e Grecia. Dal canto suo il ministro degli Interni belga, Theo Francken, il cui Paese certo non vive i drammi che si registrano nell’Europa del Sud, afferma a chiare lettere che “bisogna respingere le imbarcazioni”, con buona pace della Convenzione dei diritti dell’uomo, dei principi ispiratori dell’Ue e persino delle millenarie leggi del mare.

Da dove ripartire?

“Sono profondamente delusa dai documenti prodotti dal Consiglio affari interni sul regolamento di Dublino e la riforma del Sistema europeo comune di asilo”, afferma Cecilia Wikstroem, eurodeputata svedese, relatrice del dossier-asilo al Parlamento europeo, all’indomani della fallita riunione a Lussemburgo. “Il tempo sta per scadere se vogliamo trovare una soluzione sul regolamento di Dublino entro questo mandato”, cioè prima delle elezioni europee del 2019. “I cittadini si aspettano risultati”, afferma, per questo “spero che i governi abbiano la volontà di mettere da parte le divergenze” in vista del summit di fine giugno. Il neo premier italiano Giuseppe Conte promette che il suo governo chiederà, al suo esordio al Consiglio europeo, il superamento del Regolamento di Dublino “al fine di ottenere l’effettivo rispetto del principio di equa ripartizione delle responsabilità e realizzare sistemi automatici di ricollocamento obbligatorio dei richiedenti asilo”.Ma chiedere, può starne certo, non produrrà alcun risultato se prima non avrà tessuto una fitta rete politica e diplomatica,cercando di portare alla ragione gli altri governi europei. È quanto consiglia a Conte il presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, che da Bruxelles afferma: “L’Italia contribuisca a gettare un ponte” in sede Ue “per favorire uno spirito di cooperazione che consenta una riforma pragmatica” del sistema d’asilo, perché il summit Ue di giugno sarà probabilmente l’ultima possibilità durante questa legislatura per avviare il negoziato tra Consiglio ed Europarlamento e giungere a “una riforma basata sulla solidarietà”.

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