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Baby gang: “giovani marginali in cerca di potere e con tanta rabbia verso chi è più fortunato”

Gigliola Alfaro

Sono poco più che bambini, ma terrorizzano Napoli: parliamo delle baby gang, al centro di episodi di violenza non solo in periferia, ma anche nelle zone bene della città. Abbiamo chiesto una fotografia del fenomeno ad Antonio Mattone, direttore dell’Ufficio di pastorale sociale e del lavoro della diocesi di Napoli, fin da giovane impegnato nella Comunità di Sant’Egidio e con una grande esperienza di volontariato nel carcere di Poggioreale.

Chi sono questi minori allo sbando?

Sono giovani in cerca di identità e di considerazione che cercano di emergere per sentirsi qualcuno. Per rabbia, per noia o per vuoto si aggregano per commettere azioni violente.Oggi a Napoli sono poche le realtà che aggregano i giovani. Viviamo in una città dove sta venendo meno un senso di appartenenza a una comunità, a una famiglia, a una storia. Una città globale dove sono venuti meno quei punti di riferimento che univano e costituivano spazi di coesione sociale. Mi sembra che alla fine emerga un grande vuoto. Un vuoto di paternità che non è solo dei genitori ma di una città intera.

Quanto sono espressione della camorra presente in città?

Il confine tra l’appartenere o meno a clan camorristici strutturati è molto labile. Molto più spesso questi giovani aspirano ad entrare in un clan ma direi soprattutto a essere qualcuno, ad assumere rilevanza, a comandare e ricercare potere.In alcuni casi come è successo con la cosiddetta “paranza dei bambini” sono riusciti a diventare un vero e proprio clan, dai tratti davvero spietati.Basti pensare a quello che è emerso dalle intercettazioni sulla vicenda dell’uccisione di Luigi Galletta, un ragazzo che faceva il meccanico e che è stato ammazzato da un altro giovanissimo solo perché parente di un esponente di un clan avverso, anche se era estraneo al circuito criminale. Sicuramente molti di questi giovani forniranno leadership e manovalanza ai clan camorristici di domani, ma di un domani molto prossimo se non si interverrà subito.

Si tratta di un fenomeno, ormai, fuori controllo, che riguarda tutta la città o alcuni quartieri di periferia?

Quello della violenza giovanile mi sembra innanzitutto un fenomeno globale che riguarda tante zone del mondo. Penso per esempio alle maras in America Latina, alle bande di bambini che in Africa girano armati. Una violenza diffusa e globalizzata. Per tornare a Napoli la violenza giovanile è abbastanza trasversale. Sicuramente ci sono dei quartieri difficili periferici non solo dal punto di vista geografico ma anche esistenziale per dirla con le parole di Papa Francesco, cioè dei quartieri del centro storico dove c’è disagio sociale e dove alcuni ragazzini si aggregano per esercitare violenza e tanto spesso ne restano vittime gli indifesi: senza fissa dimora e anziani soprattutto. Poi succede anche che questi gruppi irrompano nei quartieri bene e vogliano imporre il loro potere. Ma credo che ci sia un altro aspetto da considerare:

questi giovani marginali covano dentro una rabbia verso coetanei più fortunati,

a cui la vita ha regalato più opportunità, ed ecco che scaricano il loro rancore terrorizzando passanti e frequentatori della movida. I collegamenti della metropolitana tra i quartieri di Scampia e il Vomero, per fare un esempio, hanno fatto sì che queste due fette della città venissero a contatto e gli scontri si sono così moltiplicati.

Le forze dell’ordine cosa fanno per garantire sicurezza?

Le forze dell’ordine devono esercitare quella funzione di controllo che le è propria anche se questo è l’aspetto finale del fenomeno, il problema si dovrebbe prevenire a monte. Anche sein questa fase ci vorrebbe un intervento straordinario, quanto meno per dire che a Napoli comanda lo Stato.

Come si combattono le baby gang? Serve il carcere minorile o un’azione educativa e culturale?

Il carcere minorile è tanto spesso una scuola di violenza, dove si ripropongono leggi, gerarchie e codici malavitosi.

C’è invece bisogno di padri, di educatori, di chi parli con loro perché si parla tanto di questi ragazzi violenti ma nessuno li ascolta.

Ci sono tante tesi sociologiche ma pochi li accompagnano nel percorso di crescita e provano a trasmettere valori e passioni. Bisognerebbe creare percorsi di conoscenza della storia e dei luoghi città per i bambini di questi quartieri difficili. La cultura della violenza si combatte con la cultura della bellezza. I giovani violenti di oggi non hanno una bellezza dentro di sé e non vedono la bellezza attorno a loro. Nessuno parla con loro per intercettare il loro disagio perché si è rassegnati che non possano cambiare.

 

 

Il card. Sepe ha detto: “In questa città c’è una scuola di delinquenza. Aiutiamo i nostri ragazzi a salvarsi dalla morte. Come rispondere all’appello del cardinale?

Di fronte ai gravi fatti che ciclicamente accadono, Napoli continua ostinatamente a non guardarsi dentro, a non volere fare i conti con il male oscuro, di una aggressività brutale e sanguinaria. È una vecchia abitudine della città quella di cincischiare con i propri mali senza mai affrontarli veramente.

Le parrocchie e i volontari dell’associazionismo rappresentano tante volte l’unica risposta concreta.

Sono le poche realtà che provano ad ascoltare questa infanzia abbandonata. La Chiesa deve accogliere questi bambini e le loro domande. L’esempio di don Milani che si prendeva cura di loro con amore e autorevolezza ci deve spronare a impegnarci di più. Perché il futuro di Napoli si costruirà a partire dai bambini e dall’identità e dalle passioni che saremo in grado di trasmettere loro.

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