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Perché il Pil cresce ma l’occupazione è al palo?

Di Stefano De Martis

I conti non tornano. Il prodotto interno lordo, il cosiddetto Pil, ha ripreso a crescere anche in Italia a un livello più consistente del previsto. Ma l’impatto sull’occupazione è molto scarso e praticamente inesistente quello sulla popolazione in condizione di povertà. Che cosa sta succedendo? C’è qualcuno che trucca le carte o i problemi sono a un livello più profondo? Ne abbiamo parlato con Luigino Bruni, ordinario di economia politica all’università Lumsa e uno dei protagonisti del dibattito pubblico su questi temi, anche come coordinatore internazionale del progetto di Economia di Comunione.

L’Istat, la Banca d’Italia e da ultimo anche il Fondo monetario internazionale hanno osservato, numeri alla mano, come in Italia la ripresa economica abbia finalmente assunto un ritmo meno lento di quanto si potesse immaginare fino a pochi mesi fa. Dunque la ripresa c’è davvero?
Il dato è interessante e realistico. Se ne colgono anche alcuni segnali girando per il Paese.

Ma allora com’è possibile che i numeri della povertà assoluta, per citare quelli più impressionanti, non risultino neanche scalfiti?
Non basta qualche rilevazione trimestrale o semestrale positiva per incidere su situazioni consolidate negli anni. Il meccanismo di trasmissione è molto lungo e complesso. Ma la questione, a ben vedere, è più radicale. Occorre infatti chiarire preliminarmente di quale ripresa si tratti.

Oggi quando si parla di ripresa, di crescita economica, ci si riferisce ancora a un indicatore, il Pil, che poteva andar bene nel secolo scorso, quando l’economia era molto più semplice, ma che è profondamente inadeguato a misurare l’economia del XXI secolo. Soprattutto dopo la grande crisi.

Può fare un esempio, magari riferito all’Italia?
Diciamo che il Pil può crescere per tanti motivi e questi fanno la differenza. Anche il gioco d’azzardo, per esempio, incide sulla crescita del nostro Pil, ma allo stesso tempo crea nuova povertà. Ho in mente anche il settore della fabbricazione di armamenti e a tutte le sue implicazioni.

Servirebbero quindi nuovi indicatori?
Innanzitutto bisogna porre sempre di più il problema nel dibattito pubblico. Non possiamo continuare a discutere di un aumento di mezzo punto del Pil quando questo non vuol dire più praticamente nulla. È doveroso anche in termini di democrazia. Le statistiche sono sempre state importanti per la politica economica perché rappresentano il presupposto per effettuare diagnosi corrette e quindi per compiere le scelte giuste. Se i criteri di misurazione sono inadeguati, anche le scelte finiscono per esserlo. Le soluzioni possono essere molte. Pensando per esempio alla situazione del nostro Sud, che resta una grande ferita aperta per tutto il Paese, immagino che

potrebbe essere utile almeno cominciare a lavorare per Pil regionali.

Di sicuro, dopo la crisi, non possiamo più ragionare con i criteri di prima.

L’appuntamento è in autunno, ma il dibattito sulla prossima legge di bilancio è già in corso. Anche a causa di una situazione politicamente molto fragile, l’ipotesi prevalente sembra essere quella di una manovra economica essenziale, concentrata su pochi punti. Quale priorità indicherebbe al governo?
Il lavoro. È con il lavoro che si combatte anche la povertà. Io sono molto critico sulle proposte di reddito di cittadinanza. La povertà, in termini economici, è una questione di capitale, non di flussi di reddito. È stato già stimato che nelle regioni meridionali metà del reddito di cittadinanza finirebbe nelle slot machine e nel gioco d’azzardo in genere. Non ci sono scorciatoie.

Il povero che riceve solo dei soldi resta povero. Bisogna invece metterlo nelle condizioni di costruire la propria autonomia.

L’obiettivo da perseguire dev’essere il lavoro per tutti, non il reddito per tutti, come ha detto anche il Papa a Genova. E poi mi lasci dire che sono sempre più convinto della necessità di una stagione nuova di intervento pubblico dell’economia. Dobbiamo accompagnare il mercato che da solo ha mostrato tutti i suoi limiti e le sue conseguenze negative. Lo dimostra anche l’esperienza degli ultimi anni in Paesi come gli Stati Uniti e non solo.

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