X

Eredi di Polifemo? “La vita è ciò che ti accade mentre sei impegnato a fare altro”

Di Emanuela Vinai

Estate, tempo di concerti ed eventi all’aperto. Le luci si abbassano, partono i primi accordi, sale l’urlo della folla a riempire l’arena e, in simultanea, brillano migliaia di luccichii azzurrini che rimarranno accesi per due ore. C’era un tempo, neppure troppo lontano, in cui alla canzone simbolo si impugnavano gli accendini. Oggi si alzano gli smartphone mentre ancora stanno sistemando il palco. È sicuramente un buon segno rispetto alla lotta al tabagismo, ma resta il sintomo più evidente dell’avanzare di una nuova dipendenza che non fa danni ai polmoni, ma nella nostra testa. Le lucine non sono più migliaia di fiammelle: si azionano per guardarci dentro al momento clou ed essere sicuri che la ripresa sia perfetta per la riproposizione. Eppure, chiunque abbia provato il test può testimoniare che i fuochi d’artificio visti sul cellulare non fanno fare “oh, che meraviglia” nemmeno ai figli di Povia. Ma tant’è, l’epidemia dilaga e ha radici lontane. Anni fa, un famoso comico poi prestato alla politica, girando tra il pubblico di uno dei suoi show rimproverò ruvidamente uno spettatore: “Sono qui a un metro da te e tu invece di guardarmi in faccia mi fissi laggiù sul megaschermo?”. Primi esempi di percezione strabica del mondo intorno.
Grazie alla tecnologia il tempo della fruizione personale e della condivisione si sono allineati, rendendo contemporanea – nel senso della contemporaneità di tempo e di spazio – ogni esperienza. Questo da un lato ha relegato al (tra)passato remoto la tanto deplorata “serata diapositive”, dall’altro determina un allarmante ampliamento della platea di pubblico che partecipa agli eventi senza viverli. Se la presenza fisica è infatti condizione essenziale per poter dire “io ci sono” sui diversi social, ecco che si è presenti nel senso di fare presenza, ma in realtà non ci si sta godendo per niente quello che accade. Il tempo lo si passa un po’ con la testa in alto e un po’ a capo chino, prima a condividere il live in diretta e poi a controllare, in tempo reale, quanti follower hanno commentato o segnalato il post. Come se dal numero di “like” altrui si determinasse la bontà dell’intrattenimento scelto…
Si moltiplicano gli eredi di Polifemo, dotati di un unico occhio luminoso che tutto registra, ma di fatto rende ciechi di fronte alle esperienze. Come se la realtà tangibile non esistesse se non guardandola attraverso la piccola telecamera dello smartphone: non si mangia, si fotografa il piatto. Così, paradossalmente, gli strumenti che ci permettono una disintermediazione totale in tutti i campi, sono gli stessi che invece rendono inevitabilmente mediata la nostra partecipazione e la nostra percezione del reale. Noi siamo in un posto, ma non lo viviamo, perché siamo troppo impegnati a far sapere a tutti che siamo lì e a rispondere a quelli che ci dicono quanto siamo fortunati ad essere lì, mentre il “lì” va avanti per conto suo.
Una fruizione mediata della realtà ci cambia anche la memoria. Il sociologo belga Derrick De Kerckhove ha spiegato che “la memoria personale è sempre fatta di esperienze, quella digitale sempre fatta di nozioni, di fatti. Il digitale, separando i fatti dell’esperienza, indebolisce la resistenza psicologica della persona”. Ricordare un momento particolare della nostra vita – Proust insegna – vuol dire associarvi altro, rievocare impressioni che portiamo dentro, l’essersi fatti riempire gli occhi e il cuore da qualcosa che ci è parso troppo grande, troppo intenso per essere contenuto e compreso da uno sguardo improvvisamente inadeguato a cogliere ciò che abbiamo soltanto saputo definire immenso e inesprimibile. Ma se il pensiero urgente e invadente della condivisione in simultanea ci impedisce di essere davvero presenti con tutti i nostri sensi e di interiorizzare davvero il “qui e ora” perché “tanto lo ritroviamo nel cloud”, cosa perdiamo di noi stessi?
La vita è ciò che ti accade mentre sei impegnato a fare altro”, ha scritto in tempi non sospetti – era il 1957 – il vignettista statunitense Allen Saunders (no, non è di John Lennon, lui l’ha ripresa una trentina di anni dopo). Più prosaicamente, per “guardare dentro un’emozione” basta aprire gli occhi e posare il cellulare.

Redazione: