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Terra Santa: mons. Pizzaballa, “affermazioni generiche di impegno alla pace non bastano più. Servono fatti concreti”

Di Daniele Rocchi

Tante ombre e qualche luce: è ciò che emerge nella descrizione della Terra Santa che monsignor Pierbattista Pizzaballa tratteggia al Sir partendo da alcuni ultimi eventi come la visita di Papa Francesco in Egitto. Una situazione destinata a restare grave se alle parole e alle dichiarazioni non si faranno seguire fatti concreti capaci di migliorare le condizioni dei suoi abitanti, non solo cristiani. Nell’intervista mons. Pizzaballa, amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme, e già custode di Terra Santa, tocca diversi temi, dall’ecumenismo “del sangue”, al conflitto israelo-palestinese, da Trump allo sciopero della fame dei detenuti palestinesi fino al nodo di Gerusalemme e ai pellegrinaggi.

Monsignor Pizzaballa, Papa Francesco ha compiuto da pochi giorni un viaggio apostolico in Egitto. Quali effetti potrà avere questa visita su tutti i cristiani del Medioriente?
Un effetto pratico e immediato difficile che ci sia. La visita è stata un forte incoraggiamento, una testimonianza di cui i cristiani hanno bisogno anche perché non credo che il Papa riuscirà a cambiare i drammi esistenti e le teste dei pazzi che mettono bombe.

C’è bisogno di qualcuno che dica a coloro che soffrono che non sono soli e abbandonati.

Il tema dell’ecumenismo del sangue riecheggiato nella visita ha riportato, all’attenzione di tutti, anche i cristiani perseguitati in altri Paesi della regione, Siria e Iraq su tutti. Crede che le condizioni dei cristiani in questi Paesi possano migliorare grazie anche a qualche cambiamento nella politica interna? Pensiamo alle aperture di al-Azhar sui temi della cittadinanza…
Forse in Egitto qualcosa si potrà fare. Negli altri Paesi è davvero difficile dirlo. Ma ripeto: quello lanciato dal Cairo da Papa Francesco, da Tawadros II e da Bartolomeo I, con gli altri patriarchi, a tutti i cristiani è stato un abbraccio molto significativo che non avrà ricadute nel breve. Forse nel lungo termine… Almeno spero.

Dalla conferenza per la pace di al-Azhar, il Grande Imam al-Tayyib ha ribadito la necessità di “liberare l’immagine delle religioni da falsi concetti, false interpretazioni, pratiche sbagliate. Sono mali che generano conflitti, diffondo odio, istigano violenza”…
Per impegni improrogabili non ho potuto partecipare alla Conferenza promossa da al-Azhar, dove ero stato invitato e dove dovevo intervenire. In ogni caso avrei detto che

non basta più, alla luce di ciò che accade in Medio Oriente ai cristiani e tra musulmani stessi, fare affermazioni generiche di impegno alla pace e di slogan simili.

Dobbiamo assumerci la responsabilità e chiederci perché accadono queste cose, chi nutre queste ideologie e cosa fare per interromperle.

“Noi vogliamo creare la pace tra israeliani e palestinesi e ci arriveremo”: nel suo incontro il 3 maggio con l’omologo palestinese, Abu Mazen, il presidente Trump ha detto di voler porre fine al conflitto israelo-palestinese. Trump – che sarà dal Papa il prossimo 24 maggio dopo essere stato sia in Israele sia in Palestina – riuscirà dove i suoi predecessori hanno fallito?

Tutti i presidenti Usa, all’inizio del loro mandato, dicono sempre la stessa cosa. L’esperienza maturata in oltre 20 anni in Medio Oriente mi dice che si deve essere prudenti nel fare affermazioni troppo entusiastiche.

Bisogna vedere il territorio e qui la situazione è molto grave. Lo sciopero della fame dei detenuti palestinesi, gli insediamenti che aumentano sono situazioni che non cambieranno con semplici dichiarazioni.

Qualcosa sembrerebbe muoversi: Hamas, l’organizzazione palestinese al potere nella Striscia di Gaza, ha approvato una modifica del suo programma politico e ha accettato la creazione di uno Stato palestinese entro i confini del 1967. Un’apertura alla soluzione dei “Due popoli, Due Stati”?
Potrebbe essere un’importante novità.

Passare dall’idea di distruggere Israele a quella di accettare i confini dello Stato Palestinese è importante

ma la strada è ancora lunga. Dobbiamo percorrerla e in questa direzione tutti i passi sono utili. La pace va costruita sul territorio perché è qui che la situazione deve migliorare altrimenti la gente diventa scettica e lontana.

Sul terreno giace irrisolto anche il nodo di Gerusalemme. A riguardo l’Unesco ha adottato la controversa risoluzione che nega la sovranità di Israele su una parte di Gerusalemme. Nella Città Santa per le tre religioni Trump vorrebbe trasferire l’ambasciata Usa da Tel Aviv…
Gerusalemme è il problema dei problemi e non si risolverà facilmente perché non è solo una questione territoriale o di confini ma è anche una questione ideale dove l’elemento religioso è importante.

Su Gerusalemme noi cristiani non possiamo tacere. Gerusalemme è anche cristiana.

Gerusalemme non sarà solo il risultato di un negoziato tra palestinesi e israeliani, ebrei e musulmani ma anche con i cristiani.

Prima ha accennato allo sciopero della fame in corso dal 17 aprile scorso dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane. In una nota a riguardo, come ordinari cattolici di Terra Santa, avete chiesto a Israele la fine dell’uso della detenzione amministrativa e di “sentire il grido dei prigionieri, e rispettare la loro dignità umana”. Cosa potrebbe accadere se le richieste dei detenuti non dovessero essere ascoltate, o peggio, se qualcuno dovesse morire?
Mi auguro che ciò non accada. Se dovesse accadere la situazione si aggraverebbe ulteriormente e andrebbe fuori controllo.

È da poco trascorsa la Pasqua che ha richiamato nei Luoghi Santi moltissimi pellegrini. Il 2017 sarà l’anno della ripresa dei pellegrinaggi?
Rispetto allo scorso anno abbiamo numeri in aumento. Restano bassi i flussi di pellegrinaggi dall’Europa mentre crescono quelli dall’Asia. In ogni caso i numeri assoluti parlano di un trend positivo che speriamo si mantenga a lungo.

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