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In Sud Sudan si muore di fame, è l’emergenza più grave

Patrizia Caiffa

In Sud Sudan 100mila persone rischiano di morire di fame a causa dell’instabilità politica ed economica provocata dall’uomo, un’emergenza umanitaria definita dalle organizzazioni internazionali “man made famine”. Per 5 milioni e mezzo di sudsudanesi, più della metà della popolazione, nei prossimi mesi sarà sempre più difficile avere cibo a disposizione. La farina e il riso costano quasi più di un salario medio. La sterlina locale subisce forti e repentine svalutazioni a causa del calo del prezzo del petrolio, di cui il Paese è ricco. E in alcune zone c’è il colera. È la drammatica situazione della nazione più giovane del mondo, che tanto faticosamente aveva conquistato l’indipendenza nel 2011, dopo decenni di guerra. Oggi invece torna ad essere “il Paese africano che ha più bisogno di aiuto”. Ne è convinto don Dante Carraro, direttore di Medici con l’Africa-Cuamm, organizzazione non governativa che opera in ambito sanitario. Dopo aver affrontato l’ebola in Sierra Leone, il Cuamm ha oggi sul campo in Sud Sudan 1.023 operatori locali e 53 internazionali, tra cui una ventina di italiani. Una cifra enorme, che rispecchia i tanti bisogni presenti. Dal 2013 vi sono infatti scontri tra l’esercito fedele al presidente Salva Kiir, di etnia dinka, e le forze dell’opposizione dell’ex vice presidente Riek Machar, di etnia Nuer. Bande armate attaccano anche i civili se ritenuti della fazione rivale. Nonostante il crescente clima di insicurezza e i rischi per chi ci lavora (molte ong hanno ridotto il personale e l’ambasciata italiana si è trasferita in Etiopia, con due soli funzionari a Juba), il Cuamm ha deciso di restare accanto alla popolazione. In questo scenario si colloca l’annuncio di Papa Francesco, il 26 febbraio, di un probabile viaggio ecumenico in Sud Sudan insieme all’arcivescovo di Canterbury Justin Welby, primate della Chiesa anglicana. “Sarebbe una scossa importante per una situazione che non riesce a trovare vie d’uscita”, commenta don Carraro, appena rientrato da una missione di lavoro nel Paese africano, con circa 3 milioni di cristiani.

Don Dante Carraro in Sud Sudan

Un Paese allo sbando. “A Juba ogni sera alle 8 c’è il coprifuoco e finché la città non si anima è rischioso uscire”, racconta al Sir. “Il Paese è allo sbando. Non sono riusciti a trovare una modalità di governo condivisa e questo provoca scontri”. E poi c’è il circolo vizioso dell’economia. Con il calo del prezzo del petrolio dovuto alle decisioni dei grandi stakeholders i guadagni scendono e la moneta locale si svaluta. Questo provoca un calo dei salari. Nel giro di due mesi si sono dimezzati, mentre il prezzo dei beni alimentari è aumentato a dismisura. In più “l’insicurezza e la paura per la presenza di bande armate impediscono le comunicazioni, le sementi non viaggiano e il piccolo contadino non ha di che sfamarsi”.

Dalla carestia provocata dall’annuale siccità, a tutte queste ragioni provocate dall’insipienza umana, il passo verso la fame è breve.

In arrivo 100mila sfollati in cerca di cibo. “È difficile per noi capire cosa significa fino in fondo ‘morire di fame’”, sottolinea don Carraro, che insieme ai medici e agli operatori del Cuamm ha già visto troppi volti disperati di madri, padri di famiglia che non sanno cosa dar da mangiare ai propri figli e bambini di 1 anno che pesano solo 5 kg con il ventre gonfio a causa della malnutrizione acuta. Si muore per cause banali, come infezioni, diarrea o polmonite. Il Cuamm, presente con tre ospedali e 90 centri sanitari in tre Stati interni, si sta attrezzando in questi giorni per fronteggiare

una nuova ondata di sfollati, circa 100mila, che arriveranno dallo Stato di Unity verso Lake State, in cerca di cibo e aiuti sanitari.

“L’80-90% sono donne e bambini. Gli uomini restano a casa per cercare di difendere la capanna. Si accampano intorno agli ospedali. Ci prepariamo ad accoglierli, anche con la distribuzione di coperte e sacchi di riso”.

Da sinistra: i medici Flavio Bobbio e John Major

Toccanti le testimonianze dei medici del Cuamm che operano sul campo. Uno di loro, John Major, sudsudanese, ha contratto il colera mentre curava gli ammalati con pochi farmaci e senza protezioni. È riuscito a farsi delle flebo da solo e a reidratarsi. Seppur provato e debolissimo è voluto tornare subito al lavoro a Shambe: “Non posso abbandonare la mia gente”. “La fame fa paura anche qui – racconta Flavio Bobbio, medico e direttore sanitario dell’ospedale di Yirol -. Il prezzo della farina e del riso è ormai proibitivo per i poveri dei villaggi più distanti”. Papa Francesco, al termine dell’udienza del 23 gennaio, ha invitato “a non fermarsi solo a dichiarazioni ma a rendere concreti gli aiuti alimentari e permettere che possano giungere alle popolazioni sofferenti”. Anche i vescovi cattolici sudsudanesi hanno lanciato un appello “perché si torni a negoziare e a ricercare soluzioni che contrastino guerra e crisi umanitaria”. Le agenzie Onu si stanno mobilitando, ma don Carraro auspica che

“non siano aiuti calati dall’alto, con rischio di accaparramento e speculazioni sul cibo.

Si consultino le Ong che conoscono bene il territorio”.

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