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Italia: le imprese rialzano la testa, ma resta il divario tra Nord e Sud

Luigi Crimella

In questi giorni, segnati dal nuovo dramma del terremoto in Centro Italia e delle regioni del Sud imbiancate e semi-bloccate dalla neve, arrivano notizie che riguardano le imprese e l’economia, con un messaggio a due facce: il lato buono è che le dichiarazioni dei redditi delle società di capitali italiane nel 2015 sono cresciute del 4,8%, totalizzando ben 155 miliardi. Ottima notizia se i redditi delle imprese crescono: vuole dire che la domanda aumenta e con essa, in parte, anche i posti di lavoro. Infatti, i dati più recenti sull’occupazione parlano di +656mila occupati, dei quali 487mila permanenti (merito del Jobs Act). La cattiva notizia riguarda però il Mezzogiorno: nella “fotografia” che emerge dalle statistiche fiscali non solo si conferma la debolezza del sistema imprenditoriale nel meridione, ma i dati forniti testimoniano una distanza rispetto al Centro-Nord che rischia di farsi ancora più marcata.

Classifica per regione e ritardi da colmare. Partiamo da qualche cifra: le imprese in Italia sono in totale 3.894.285, delle quali le società di capitali ed enti commerciali sono 1 milione e 122mila, quelle di persone 790mila e le ditte individuali 1 milione e 981mila.

Tra le società di capitali il 61% ha dichiarato un risultato positivo ai fini Ires

(imposta sul reddito delle società), contro un 33% in perdita e un 6% che ha chiuso in pareggio. Quindi risulta che sei società di capitali su 10 stanno funzionando bene, hanno mercato e alla fine dell’esercizio assicurano utili ai proprietari. Purtroppo per le altre 4, le cose non vanno altrettanto bene. Guardando alle varie regioni, la Lombardia si aggiudica un terzo dei redditi totali (53,4 miliardi sui 155) con 147mila società, le quali mediamente hanno dichiarato redditi per 363.600 euro. A conti fatti, una società lombarda con due o tre soci “frutta” a ciascuno di loro dai 100 ai 150mila euro ante imposte l’anno: un buon risultato di impresa. Il Piemonte allinea 37mila società di capitali in utile con un reddito medio di 327mila euro. L’Emilia-Romagna ha 57mila società in attivo per un reddito medio ciascuna di 254mila euro.

Modesta produzione di ricchezza. Il panorama cambia quando si comincia a scendere al Centro e poi al Sud Italia. Le regioni centrali vedono un deciso “peso” del Lazio con le sue circa 93mila imprese e un reddito medio di 295mila euro: il grosso di tali società è concentrato nell’area metropolitana di Roma (e in parte a Latina e Frosinone). Discreta la Toscana con 48mila società e redditi per 163mila euro. Per il resto cominciano i dati più deboli, spesso preoccupanti. Infatti,le regioni centro-meridionali hanno poche decine di migliaia di società in attivo, tendenzialmente di dimensioni più piccole e i redditi medi risultano più bassi:ad esempio, in Campania sono circa 60mila le società con un reddito medio di 75mila euro. La Sicilia ne allinea 37mila con 63mila euro di redditi Ires; la Puglia più o meno allo stesso livello. Le altre regioni arrancano con poche migliaia di società e redditi ancora più bassi: in genere sotto i 60mila euro, con la Calabria che scende a 47mila euro medi. Considerato che sono redditi ante imposte, si capisce che la produzione di ricchezza in queste regioni risulta piuttosto bassa e quasi non compensa (anche in caso di utile finale) il rischio che l’imprenditore corre ogni santo giorno che apre i cancelli della sua azienda. Tali dati sono “medi” e quindi per un confronto più preciso occorrerebbe analizzare i redditi dichiarati per classi dimensionali. Ma il problema complessivo rimane: il Sud continua a soffrire.

Non basta la politica delle “infrastrutture”. Tutto questo discorso per dire che ben venga il varo dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, ultimata dopo decenni; ben vengano le speciali agevolazioni alle assunzioni di giovani nelle regioni meridionali decise con la manovra finanziaria 2017 e il “Bonus Sud”; così pure ben vengano i 15 “Patti di spesa” sempre per il Mezzogiorno firmati da Renzi, sostenuti dal Fondo di sviluppo e coesione dell’Unione europea (1,1 miliardi di investimenti su ambiente, infrastrutture, turismo, welfare, scuola). Ma, per dare una risposta concreta agli oltre 2 milioni di disoccupati dell’area

occorrerebbe favorire la nascita di una miriade di nuove imprese, specie nei settori di punta

(tecnologie, internet, servizi informatici) oltre che nel turismo e nella cultura, dove tra l’altro potrebbero essere utilmente impiegati i molti laureati meridionali che altrimenti sono costretti a spostarsi al Nord, oppure a emigrare. Una strada, questa, in parte delineata nel programma “Industria 4.0” varato dal governo. Di certo non ci si può fermare unicamente alla politica delle “infrastrutture” (opere pubbliche quali strade, ferrovie, ospedali, scuole ecc.) di cui c’è pure bisogno. Il rischio infatti è che ciò aumenti il Pil nazionale e in parte anche l’occupazione, ma a beneficiarne siano solo le aziende del Centro-Nord che “scendono” a costruire e poi, a fine lavori, portano gli utili a casa. Lasciando il Mezzogiorno con nuove infrastrutture ma senza futuro.

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