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Il viaggio di Fanny: una rilettura educational del dramma della Shoah

Massimo Giraldi

Uscirà nelle sale italiane il 26 e 27 gennaio 2017 “Il viaggio di Fanny” (“Le voyage de Fanny”, 2016) della regista francese Lola Doillon, per la Giornata della Memoria, proclamata a livello internazionale il 27 gennaio dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2005. Un’occasione per ricordare il dramma dell’Olocausto, tutte le vittime della violenza nazi-fascista, in tempi in cui si fatica a dare voce alla memoria dinanzi a una preoccupante “distrazione” sociale.

La tredicenne Fanny si scontra con la Shoah. Tratto da una storia vera, da libro autobiografico di Fanny Ben Ami, “Il viaggio di Fanny” è diventato un film – vincitore tra l’altro della sezione Generator +13 al Giffoni Film Festival nel 2016 – grazie all’interessamento della regista Lola Doillon e della produttrice Saga Blachard; la regista per entrare con rispetto nelle pieghe della vicenda di Fanny è volata a Tel Aviv per incontrare la donna, per conoscere meglio la sua storia e quella della famiglia. Il film. La tredicenne Fanny (Léonie Souchaud) vive con le sue sorelle in una delle colonie sul territorio francese per volontà dei genitori, al fine di tenerle lontane dai rischi della guerra. Lì, nell’ambiente montano a ridosso del confine svizzero, le ragazze conoscono altri giovani, con cui legano e trovano un immediato sodalizio. La guerra e le violenze naziste arrivano però ben presto anche in quei luoghi, pertanto la fuga diviene una scelta obbligata. La piccola Fanny assume pertanto su di sé la responsabilità del gruppo e prova a condurre tutti alla salvezza oltre il confine Svizzero.

È girato “ad altezza di bambino”, come si dice in termine tecnico, il film “Il viaggio di Fanny”, lavorando con attenzione alla psicologia dei piccoli, alla loro reazione davanti alla scoperta della crudeltà della guerra e della ferocia nazi-fascista, incapace di risparmiare persino gli innocenti. C’è sì la rappresentazione del male e del pericolo nel racconto, ma c’è anche lo spazio per la fiducia e la reazione, affidata proprio alla tredicenne protagonista, che è chiamata guidare gli altri ragazzi con coraggio e speranza. Grazie al modo di gestire l’emergenza da parte della bambina, il racconto trova così la piega della vicenda avventurosa.

Soluzione narrativa che ricorda il film “La vita è bella” (1997) di Roberto Benigni, dove viene messo in scena il tentativo di un padre di nascondere al proprio figlio l’orrore del campo di concentramento inventandosi un gioco a premi, dove la posta in palio è la vincita di un carro armato. “Il viaggio di Fanny” ha una linea educational molto marcata, in grado di presentare l’orrore della Shoah ai più piccoli senza cercare il facile trauma, bensì tratteggiando una storia di salvezza, che si accende proprio grazie al coraggio della piccola Fanny, pronta a mettersi in gioco per gli altri e aiutare tutti a sognare un futuro di pace. Dal punto di vista pastorale, il film è da valutare come consigliabile, problematico e adatto per dibattiti.

Quando il cinema tiene viva la memoria. “Cinema è memoria. Il cinema sulla Shoah, in particolare, è diventato il paradigma stesso della memoria”. È quanto sottolinea la studiosa Claudia Hassan (Cfr. “I film studies”, Carocci 2013) sulla rappresentazione della Shoah sul grande schermo, rimarcando il ruolo decisivo del cinema nel processo di elaborazione della tragedia e testimonianza della memoria. Tanti, infatti, sono i titoli che sono stati proposti sul tema, ricorrendo a modalità di racconto differenti, dalla linea tragica alla declinazione fiabesca: “Jona che visse nella balena” (1993) di Roberto Faenza (suo anche Anita B. del 2013), “Schindler’s List” (1993) di Steven Spielberg, “La settima stanza” (Siódmy pokój, 1995) di Márta Mészáros, “La vita è bella” (1997), “Train de vie” (1999) di Radu Mihaileanu, “Il pianista” (“The Pianist”, 2002) di Roman Polanski, “Il bambino con il pigiama a righe” (“The Boy in the Striped Pajamas”, 2008) di Mark Herman, “La chiave di Sara” (“Elle s’appelait Sarah”, 2010), “Hannah Arendt” (2012) di Margarethe Von Trotta, fino a “Woman in Gold” (2015) di Simon Curtis e “Il figlio di Saul” (“Saul fia”, 2015) di László Nemes. Come ha ricordato papa Francesco nella sua prima visita alla Sinagoga di Roma, il 17 gennaio 2016: “La violenza dell’uomo sull’uomo è in contraddizione con ogni religione degna di questo nome, e in particolare con le tre grandi religioni monoteistiche. La vita è sacra, quale dono di Dio”.

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