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Dinanzi alla fabbrica dei diritti occorre riscoprire il personalismo come antidoto al soggettivismo giuridico

Di Fabio G. Angelini

Il dibattito di queste settimane sul ddl Cirinnà ci offre lo spunto per proporre una riflessione che, astenendosi dall’entrare nel vivo di tale discussione, intende invece soffermarsi sulle implicazioni istituzionali e sociali di una visione del diritto sempre più ridotto a potere piuttosto che esaltato a strumento capace di accompagnare lo svolgersi e il mutarsi della realtà sociale attraverso l’integrazione e l’armonizzazione della dimensione soggettiva dell’uomo con quella oggettiva, conseguente al suo essere posto al centro di un reticolo di relazioni implicanti diritti e doveri.
Il punto di partenza di una simile analisi è rappresentato dalla constatazione che gli ordinamenti giuridici post-moderni, anche a causa di una politica sempre meno capace di farsi realmente interprete delle istanze sociali, soffrono di un esasperato soggettivismo giuridico, frutto di una sempre più marcata separazione tra lo Stato e l’individuo.

In questo contesto, il tentativo di contenimento della complessità dell’ordine giuridico è andato di pari passo con il progressivo indebolimento delle formazioni sociali intermedie (tra cui la famiglia), fin quasi alla loro scomparsa, funzionale alla semplificazione della realtà sociale che il diritto è chiamata a regolare. La ricerca di semplificazione del paesaggio giuridico post-moderno passa dunque attraverso due poli opposti: da un lato lo Stato, il cui diritto tende ad esaurirsi nella volontà del titolare del potere sovrano, manifestandosi come potere che va sempre più, a sua volta, frammentandosi tra autorità statali, locali e sovranazionali; dall’altro l’individuo, rispetto al quale il diritto tende ad assumere le sembianze di posizioni rigorosamente individuali, in cui interessi aspirano a diventare vere e proprie situazioni giuridiche soggettive protette dall’ordinamento, rispetto alle quali viene via via svuotandosi la dimensione sociale dell’individuo riducendo i rapporti intersoggettivi a semplici relazioni con altre entità individuali.
L’assetto istituzionale e sociale che deriva da questa visione del diritto risulta, inevitabilmente, costituito da un consistente apparato potestativo rappresentato dalle diverse manifestazioni (a livello statale, locale e sovranazionale) della sovranità e da una realtà sociale frammentata, caratterizzata da una spiccata individualità. Un assetto istituzionale che, negando l’esistenza tra lo Stato e l’individuo di una dimensione relazionale, risulta rigido, incapace di promuovere la libertà individuale, di riconoscere la correlazione esistente tra diritti e doveri e, in definitiva, scarsamente inclusivo.

Dal punto di vista dell’ordinamento giuridico, un tale assetto istituzionale, produce a lungo andare un’insanabile frattura con la realtà sociale.

Tali critiche non ci portano però a negare la centralità del soggetto all’interno dell’ordinamento giuridico, quanto piuttosto a riscoprire – anche nei dibattiti come quelli a cui assistiamo recentemente – l’essenziale distinzione tra individuo e persona. Attraverso il concetto di persona è, infatti, possibile recuperare quella dimensione sociale e relazionale dell’individuo che portò Antonio Rosmini ad affermare che proprio “la persona ha nella sua natura stessa tutti i costitutivi del diritto: essa è dunque il diritto sussistente, l’essenza del diritto” (Filosofia del diritto, I, n. 52, 192).
In questa prospettiva, se è il bene dell’uomo ciò che ci sta a cuore, è necessario affrontare la complessità della nostra realtà a partire dal riconoscimento della sua incomprimibile dignità, superando strumentalizzazioni e visioni dogmatiche e ponendo il confronto su un binario dialettico incentrato sulla razionalità. In questo sforzo, da cattolici, non potremo che attingere ai principi della dottrina sociale della Chiesa (DSC) che, come tale, “argomenta a partire dalla ragione e dal diritto naturale, cioè a partire da ciò che è conforme alla natura di ogni essere umano” (Benedetto XVI, Deus caritas est, 28). Parafrasando San Giovanni Paolo II (Nuovo millennio ineunte, 51), la DSC può aiutarci a confrontarci sulle complesse questioni del nostro tempo adottando un approccio universale, capace cioè di parlare a tutti senza imporre ai non credenti una prospettiva di fede, bensì interpretando e difendendo i valori radicati nella stessa natura dell’essere umano.
La DSC muove proprio dall’affermazione della dignità sacra dell’uomo e dalla tutela dei diritti che da essa discendono, collocandosi nel punto dinamico di intersezione tra l’azione del singolo, della comunità cristiana e della società intera, adottando la prospettiva dello sviluppo integrale della persona. Valorizzando una visione dignitaria dei diritti, capace di porre al centro dell’ordinamento giuridico la persona, possiamo perciò rilevare come proprio dalla dignità umana derivi sul piano giuridico il riconoscimento dei suoi diritti e come, a sua volta, dalla natura relazionale dell’uomo derivi l’affermazione di altrettanti doveri in capo a quest’ultimo.
Ne discende, pertanto, che ogni qualvolta che in nome di un soggettivismo esasperato si insegue il riconoscimento giuridico di pretese individuali come diritti, prescindendo sia dal loro ancoraggio ad una visione dignitaria che da una valutazione in ordine alla compatibilità degli stessi con la dimensione relazionale dell’uomo, negando quindi l’esistenza di una realtà sociale che precede il diritto e che esso è chiamato a ordinare e mai a manipolare, ci troviamo di fronte a una sconfitta in primis del diritto e poi della società nel suo insieme.

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