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Una società aperta accetta di dare la vita

Fabio G. Angelini

È di pochi giorni fa la decisione del gigante asiatico di superare la politica del figlio unico: lo strumento di controllo demografico che, per ben 36 anni, ha impedito alle coppie cinesi di aprirsi completamente al dono della vita. Resta però la grave ferita di un Paese in cui la trasmissione della vita, piuttosto che momento di partecipazione dell’uomo e della donna all’opera creatrice per mezzo dell’amore, continua ad essere vissuta come una scelta nella disponibilità delle istituzioni e non dei genitori, ostaggio di politiche di pianificazione delle nascite in contrasto con la dignità della persona. Nel 1979 le autorità cinesi giustificarono questa politica muovendo da motivazioni di natura socio-economica. La decisione di portare a due i figli per coppia, muove dalle medesime istanze: l’esigenza di superare gli squilibri provocati dalla politica del figlio unico in termini di invecchiamento della popolazione e incremento dei costi sociali; nonché, di supportare la nuova fase di sviluppo della Cina favorendo la transizione verso un’economia basata su servizi, consumi interni e innovazione.

Quello cinese è l’esempio di un sistema istituzionale – e, di conseguenza, anche economico – tipicamente estrattivo, in cui finanche il dono della trasmissione della vita, massima espressione di una libertà che è dell’uomo in quanto uomo, è sottratto all’amore e sottomesso alle esigenze di potere e di dominio dell’uomo sull’uomo.
La scelta di avere un figlio è una libertà fondamentale dell’uomo, un diritto inalienabile che i pubblici poteri possono solo riconoscere e tutelare come tale. In nessun caso essa può essere sottoposta a limitazioni da parte di un’autorità politica, qualunque sia lo scopo perseguito. Tale libertà fondamentale, non è però assoluta. Il suo esercizio, infatti, presuppone un dono, un’apertura alla vita che richiede consapevolezza e umiltà, e che trova la sua naturale collocazione all’interno dell’amore coniugale tra un uomo e una donna.
La dottrina sociale della Chiesa (Dsc) ci insegna che la persona non può essere strumentalizzata per fini estranei al suo stesso sviluppo e che, perciò, la vita e la dignità dell’uomo non possono essere sottomesse a obiettivi economici, sociali o politici. La sensibilità al dono della vita è, dunque, rivelatrice di quanto la dignità della persona sia il perno della cornice istituzionale di un Paese e, pertanto, di quanto essa risulti inclusiva.
La società occidentale – sempre più consumistica, schiava dell’individualismo e dell’egoismo – tende spesso a dipingere la genitorialità come un ostacolo alla realizzazione personale dei singoli e alla libertà individuale, diffondendo stili di vita contrari all’insegnamento sociale della Chiesa. All’opposto, nel medesimo contesto culturale, non mancano però esempi in cui la stessa libertà di mettere al mondo dei figli tende ad essere fraintesa, allontanandosi dalla dimensione del dono che le è propria e sfociando in arbitrio. Queste tendenze culturali, pur con caratteri diversi, scontano la medesima matrice estrattiva e disumanizzante alla base delle contestate politiche di controllo delle nascite adottate in Cina.

Se una società libera si riconosce prima di tutto da come sono trattati i bambini (Francesco, Ud. Gen., 18 marzo 2015), ciò significa che anche i Paesi occidentali hanno molta strada da compiere sul fronte della promozione della natalità: sia contrastando simili derive culturali, sia adottando politiche di sostegno alle famiglie in grado di infondere fiducia e speranza alle nuove generazioni.
Il Sinodo dei Vescovi dedicato alla famiglia ha dedicato una particolare attenzione al tema della natalità e ai fraintendimenti cui è esposta la trasmissione della vita, specie nel mondo occidentale. Se da un lato i Vescovi hanno ribadito la contrarietà della Chiesa verso qualsivoglia intervento coercitivo dello Stato a favore di contraccezione, sterilizzazione o addirittura aborto, dall’altro non hanno mancato di svelare i pericoli di una diffusa mentalità “che riduce la generazione della vita alla sola gratificazione individuale e di coppia”, sottolineando la necessità di porre rimedio a quei “fattori di ordine economico, culturale ed educativo [che] esercitano un peso talvolta determinante contribuendo al forte calo della natalità che indebolisce il tessuto sociale, compromette il rapporto tra le generazioni e rende più incerto lo sguardo sul futuro”.
Una società aperta, che voglia crescere e prosperare, non può rinunciare a fare della cultura della vita il fattore trainante del proprio modello di sviluppo. La formazione delle coscienze, affinché la decisione di un padre e una madre di avere un figlio sia “intimamente libera da un arbitrio soggettivo e dall’adeguamento ai modi di comportarsi del loro ambiente”, così come pure l’impegno dei cattolici affinché promuovano istituzioni politiche ed economiche sempre più a misura di bambino, costituiscono una parte importante dell’eredità che ci lascia il Sinodo sulla famiglia, destinata ad essere il cuore pulsante di una nuova evangelizzazione che passa anche attraverso una “inculturazione” che trasforma gli autentici valori culturali mediante “l’integrazione nel cristianesimo e il radicamento del cristianesimo nelle varie culture umane” (Francesco, Discorso a conclusione dei lavori del Sinodo, 24 ottobre 2015).

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