rifugiatiDi Fabio Zavattaro

C’è una foto che in questi giorni ha commosso il mondo: il bambino siriano di due anni tra le braccia di un soccorritore sulla spiaggia turca di Bodrum morto annegato assieme alla mamma e al fratellino di cinque anni, e sepolto a Kobane. E c’è un’Europa che assomiglia molto a quel sordomuto del Vangelo di Marco, guarito da Gesù: nazioni incapaci di ascoltare il grido che viene da questi popoli che fuggono da guerre, violenze, miseria, persecuzioni; Paesi che chiudono le loro frontiere per impedire questo esodo. Stati incapaci di trovare le parole giuste per dire e dare solidarietà a questi popoli erranti.
Non c’è un cenno al dibattito in corso nel Vecchio Continente su come destinare per quote le migliaia di profughi – 40, forse 60mila – che sono arrivati sulle spiagge dell’Italia e della Grecia; non parla delle migliaia di uomini, donne e bambini fermati alle frontiere, trattati come merce, marchiati con un numero tracciato con il pennarello sul braccio. Non si sofferma sulla tragedia di coloro che rischiano la vita sui camion o lungo la ferrovia che unisce la Francia all’Inghilterra. Come Gesù con il sordomuto, Francesco sembra quasi prenderci per mano e portarci lontano dal chiacchiericcio di questi giorni e ascoltare, nel silenzio, la voce di coloro che sfidano pericoli di ogni sorta, spinti dalla speranza di un futuro migliore, per loro e per i loro figli. Così come la Parola di Dio, che “ha bisogno di silenzio per essere accolta come parola che risana, che riconcilia e ristabilisce la comunicazione”, ricorda Francesco.
L’episodio narrato nel Vangelo di Marco ci parla di un Dio che non è chiuso in se stesso, afferma il Papa all’Angelus, “ma si apre e si mette in comunicazione con l’umanità”. Ci viene incontro, “supera l’abisso dell’infinita differenza tra lui e noi”. È un Vangelo che parla anche di noi, ricorda ancora: “Spesso noi siamo ripiegati e chiusi in noi stessi, e creiamo tante isole inaccessibili e inospitali. Persino i rapporti umani più elementari a volte creano delle realtà incapaci di apertura reciproca: la coppia chiusa, la famiglia chiusa, il gruppo chiuso, la parrocchia chiusa, la patria chiusa… E questo non è di Dio! Questo è nostro, è il nostro peccato”.
Ecco che, allora, torna l’immagine del sordomuto, cioè di un mondo incapace di ascoltare la voce di donne e uomini che vivono difficoltà e privazioni. Torna quella globalizzazione dell’indifferenza che nel suo primo viaggio, luglio 2013, nell’isola di Lampedusa aveva evidenziato, di fronte alla tragedia di quanti affrontano i rischi di una traversata su imbarcazioni inadeguate e troppo affollate. Già in quell’occasione il Papa aveva invitato a riflettere su un mare diventato un cimitero liquido, su volti di donne, uomini e bambini segnati dalla paura, dalla fame e anche dalla disperazione. Allora risuonò forte l’invito a sostituire la globalizzazione dell’indifferenza, l’incapacità di piangere, con la globalizzazione della solidarietà. Parole che, però, rimasero scritte sulla carta. Oggi siamo ancora di fronte a nuove tragedie, forse ancora più eclatanti di quelle vissute due, o tre anni fa.
Francesco così si fa voce di questa umanità e lancia il suo appello alle parrocchie, a istituti, monasteri, santuari e comunità religiose, di accogliere una famiglia di immigrati, esprimendo così la “concretezza del Vangelo”; di essere, cioè, “prossimi” dei più piccoli e abbandonati, “dare loro una speranza concreta”. È un gesto che rientra nel cammino che Francesco ha voluto proporre con il Giubileo della misericordia, che si aprirà l’8 dicembre.
È proprio attraverso il battesimo, e quella parola effatà, cioè apriti in aramaico, che per il Papa si compie il miracolo e “siamo stati guariti dalla sordità dell’egoismo e dal mutismo della chiusura e del peccato, e siamo stati inseriti nella grande famiglia della Chiesa; possiamo ascoltare Dio che ci parla e comunicare la sua Parola a quanti non l’hanno mai ascoltata, o a chi l’ha dimenticata e sepolta sotto le spine delle preoccupazioni e degli inganni del mondo”.

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